Una notizia non è più necessariamente un fatto, ma un contenuto a cui la viralità conferisce credibilità. Appare evidente come, anche solo rispetto a dieci anni fa, siamo tutti infinitamente più esposti al pericolo di diventare conduttori di false notizie. D’altra parte è sufficiente constatare che in Italia trascorriamo mediamente più di sei ore al giorno connessi a Internet per comprendere che la vera merce siamo noi e la nostra attenzione. Poco importa se a catturarla sia una notizia inventata o autentica, sport, gossip o pornografia: l’importante è tenerci attaccati il più possibile al web. I grandi perché di questo sistema sono due: potere e soldi.
Cominciamo con l’intuizione di Benjamin Day, che per primo, nel 1893, comprese che il vero business non lo avrebbe fatto sul prezzo di copertina del suo New York Sun, bensì sulla vendita degli spazi pubblicitari, e che il loro valore di mercato sarebbe stato direttamente proporzionale al grado di visibilità che avrebbero garantito agli inserzionisti: per farla breve, più lettori uguale più soldi. Semplice, no? Con l’avvento della Rete quel fenomeno si è evoluto nel clickbait, ovvero la pubblicazione di contenuti con l’unico obiettivo di racimolare page views, ergo quattrini. Fare il giornalista oggi è quindi un lavoro infinitamente più difficile, pericoloso e mal retribuito rispetto a un tempo, poiché la massa critica delle notizie da valutare è aumentata esponenzialmente e, con essa, anche la possibilità di imbattersi in fonti che raccontano i fatti in base agli interessi che rappresentano, siano essi di natura commerciale o politica.
Ora passeremo al ruolo dei social network nella diffusione di notizie false o distorte, ma prima è necessario un presupposto di partenza: le BigWeb companies generano i loro profitti attraverso la profilazione dei propri utenti, che avviene sulla base dei dati di cui noi stessi disseminiamo la rete. Ciò che leggiamo, con quali utenti interagiamo più spesso, quale musica ascoltiamo, cosa compriamo, dove andiamo, come spendiamo i nostri soldi: ogni nostra singola azione viene raccolta ed elaborata. Il perché è presto detto: grazie a quell’immensa mole di dati che noi stessi gli forniamo, loro sono in grado di sapere cosa vogliamo o, meglio ancora, cosa potremmo desiderare. Dal momento che Facebook e Google di fatto hanno il monopolio della pubblicità digitale, dettano le regole a chi fa informazione, che può scegliere soltanto tra adeguarsi al nuovo campo di gioco, oppure morire. Nel mezzo ci siamo noi, che veniamo costantemente bombardati da miliardi di informazioni il più delle volte inutili, che sono parte di un disegno in cui non importa se una notizia sia vera o falsa, ma che sia capace di catturare la nostra attenzione.
Il processo è irreversibile e, anzi, è destinato ad avere un impatto sempre maggiore sulle nostre esistenze. Tra non molto i passi da gigante compiuti nello sviluppo dell’intelligenza artificiale entreranno a far parte del nostro quotidiano, portandoci indubbi benefici, certo, ma anche contribuendo ulteriormente a quel processo di profilazione a cui siamo già tutti sottoposti. In fin dei conti la nostra vita è ciò a cui abbiamo prestato attenzione, e in questo preciso momento storico rischiamo di vivere un’esistenza non pienamente nostra, o comunque influenzata da chi mira a catturare la nostra attenzione esponendoci all’onda d’urto di un flusso di informazioni che si basa sempre meno sui fatti concreti, e sempre di più su ciò che è potenzialmente in grado di suscitare clamore o costruire consenso. Se vogliamo farci gli anticorpi a quella che potrebbe diventare una vera e propria schiavitù, dobbiamo anzitutto riappropriarci della nostra attenzione e indirizzarla verso ciò che veramente conta. Impariamo ad approfondire le notizie, riappropriamoci del nostro tempo e della libertà di farci un’idea, perché altrimenti saremo destinati a orientare le nostre azioni in base a opinioni di altri che, come se non bastasse, il più delle volte vengono spacciate per fatti con l’unico obiettivo di raggiungere un fine. Noi.
@alenardone
(Estratto della prefazione del libro Fake Revolution di Eros Robba)