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La Cia (e la Lega) spiegano perché una guerra commerciale con Trump non conviene. Soprattutto all’Italia

No, una guerra commerciale non conviene proprio all’Italia. Se poi il “nemico” si chiama Stati Uniti, men che meno.  Armando Siri, braccio destro di Matteo Salvini e ideatore della flat tax, scansa gli isterismi, pur sposando alla fine la tesi della prudenza. Per Siri c’è poco da sconvolgersi sui dazi di Trump. “In Europa abbiamo una strana abitudine. Ci sconvolgiamo per cose che appartengono al passato. Trump lo ha sempre detto che avrebbe fatto di tutto per proteggere le imprese americane, d’altronde è il principio dell’American first”, spiega a Formiche.net. L’Italia dovrebbe essere fiduciosa, perché comunque siamo un Paese della Nato.  Si finisce sempre per reagire in maniera scomposta e credo che una reazione europea sia quanto meno prematura. Aspettiamo di capire chi e cosa colpiscono i dazi, poi vediamo”.

Dino Scanavino, presidente della Cia, la Confederazione italiana degli agricoltori spiega a Formiche.net perché evitare lo scontro sarebbe la scelta migliore. “Il mercato americano è di vitale importanza per noi. Basta considerare il comparto vinicolo, che ha il primo sbocco proprio negli Stati Uniti. Una guerra sarebbe deleteria. Credo a questo punto che l’Europa dovrebbe avere un atteggiamento orientato alla diplomazia, alla prudenza, senza esasperare gli animi. Non conviene a nessuno, noi per primi”.

“Le guerre commerciali non giovano a nessuno e rischiano di compromettere la ripresa economica che è in atto su scala mondiale”, ha dichiarato il presidente di Confagricoltura, Massimiliano Giansanti. “Il sistema agroalimentare italiano ha bisogno di mercati aperti sui quali far valere la qualità e la competitività delle nostre produzioni. E i mercati vanno gestiti sulla base di regole multilaterali rigorose in termini di sicurezza alimentare, protezione dell’ambiente e tutela sociale”. Insomma, a decisione del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump sui dazi alle importazioni di acciaio e alluminio rischia di scatenare un effetto valanga in cui chi ci rimette di più è proprio l’Italia.

E allora forse ha ragione Carlo Calenda, ministro dello Sviluppo Economico, che pochi giorni fa (qui lo speciale sui dazi americani di Formiche.net) ha invitato l’Europa a sposare la linea della prudenza. Per due motivi. Punto primo, gli americani amano cibo e bevande italiane. Lo dimostrano i volumi di export made in Italy oltre l’Atlantico registrati nel 2017: 40,5 miliardi di esportazioni che secondo la Coldiretti hanno raggiunto nel 2017 in Usa il record storico grazie ad un aumento del 9,8% rispetto all’anno precedente.

E questo perché gli Stati Uniti sono di gran lunga il principale mercato di riferimento per il made in Italy fuori dall’Unione Europea con un impatto rilevante anche per l’agroalimentare. Senza considerare che l’Italia importa molto dagli States, solo il whisky bourbon vale 25 milioni di euro, sempre secondo Coldiretti. Punto secondo, l’interscambio Italia-Stati Uniti, non ha eguali in Europa, non c’è acciaio o alluminio che tenga dinnanzi alla mole di prodotti gastronomici italiani esportati oltre Oceano (Ferrero, lo scorso anno, è diventato tra i primi produttori dolciari americani, per dirne una).

Punire insomma la Casa Bianca con dei contro-dazi vorrebbe dunque dire innescare automaticamente una contro-reazione americana, che rischierebbe di tagliare le gambe al Paese. Per questo, essere prudenti e non rabbiosi con l’America conviene soprattutto all’Italia e non tanto a Paesi come Francia e Germania che non esportano certo quanto il Bel Paese. E a dispetto delle reazioni preoccupate arrivate nelle ultime ore dalla cancelliera Angela Merkel e dal ministro delle Finanze francese, Bruno Le Maire, ci sono i numeri e le reazioni delle principali categorie del mondo agroalimentare italiano a certificare quanto più degli altri colleghi europei l’Italia rischi con la guerra commerciale.


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