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Breve guida alla lettura filosofica di Papa Francesco

Sono già passati cinque anni da quando, dopo la consumazione della rinuncia di Benedetto XVI, Jorge Mario Bergoglio si affacciava sul sagrato di San Pietro come Papa Francesco. Sembra invece che siano trascorsi decenni da quel momento, specialmente perché da allora l’agenda delle priorità della Chiesa cattolica è mutata profondamente.

Joseph Ratzinger ha sicuramente una biografia diversa, tutta mitteleuropea, con dei riferimenti teologici legati ad altissime conoscenze accademiche che espresse con forza durante i quasi otto anni di governo; invece all’improvviso la novità è stata il cambiamento di stile, la innovativa modalità di approccio semplice che Francesco ha portato avanti con coraggio e perseveranza sempre e dappertutto.

La prima fase del pontificato coincise proprio con l’immediata rivoluzione nel modo millenario di concepire il rapporto tra Chiesa gerarchica e potere umano. La rimozione completa di qualsiasi riconoscimento positivo nell’esercizio smodato dell’autorità, ha spinto Francesco a modificare completamente l’immagine invecchiata della Chiesa, deteriorata negli ultimi anni da scandali e incoerenze gravi. Si disse subito che era finito il Barocco, e che si entrava così in una rappresentazione della cristianità di tipo orizzontale e concreta, non più verticale e alienata.

Bergoglio, al di là di tutto, ha sostituito senza dubbio la ierocrazia con un’attenzione molto più forte e diretta alla condivisione comunitaria, ben espressa da un concetto presente già nella sua predicazione di vescovo a Buenos Aires: il primato della realtà. La Chiesa non deve comunicare idee, ma manifestare la consistenza che vive nella fede, pienamente attuata quando l’esistenza personale s’identifica altruisticamente con Cristo e la sua Chiesa.
Questo significa seguire il Vangelo più che la teologia, facendo vivere la teologia stessa nella prassi comportamentale concreta, dove maturano responsabilità e si misurano i rischi delle scelte, palesandosi le inquietudini morali della coscienza.

È questo il senso delle sue ormai classiche espressioni “Chiesa in uscita” e “Chiesa povera per i poveri”: si tratta di una cattolicità essenziale che si propone come antidoto cristiano all’egoismo chiuso e individualista della “mondanità”.
Sicuramente nella fase, durata circa due anni, occupata dal Sinodo della famiglia i media hanno marcato prevalentemente la discontinuità con Benedetto XVI. In realtà l’immagine non è del tutto corretta. Francesco ha voluto aprire un confronto con i prelati e dare la possibilità di un dialogo pubblico con tutti su posizioni che implicitamente non erano e restano non pienamente convergenti. Tuttavia, la dottrina relativa al matrimonio e alla sua indissolubilità è rimasta, e come sarebbe potuto essere diversamente, la stessa di sempre. Semmai l’impegno di Francesco è stato rigorosamente quello di non chiudere ed escludere nessuno, ma comprendere ed accogliere tutti, specialmente chi pensa diversamente ed è lontano dalla fede.

Se gli interventi di Benedetto XVI ruotavano attorno al primato della verità cristiana come condizione di possibilità di una libertà responsabile e come criterio di giudizio metafisico sulla contingenza storica del mondo, Francesco ha voluto con forza porre la verità costitutiva della fede in rapporto diretto con la vita delle persone e delle società di oggi, molto distanti spesso dal riuscire a coniugare con facilità ciò che è creduto e ciò che è vissuto.

Molto considerevoli sono state le due encicliche: Lumen Fidei (2013) e Laudato sì (2015). Se la prima ha certificato il passaggio di consegne tra i due pontificati, e la loro lineare continuità agostiniana in materia di teologia dogmatica, la seconda ha espresso a pieno il bisogno bergogliano di un recupero dell’autentico concetto creaturale di natura umana, collegata al mondo e all’ambiente, dalla cui tutela dipende sopravvivenza, lavoro e sviluppo equo, e da cui non è possibile disimpegnarsi. Noi non siamo Dio, non siamo i creatori del mondo e di noi stessi: perciò dobbiamo tutelare l’essere delle cose, salvaguardando il significato della nostra natura umana sulla Terra, riconoscendo il diritto assoluto di ogni persona a poter vivere degnamente la sua trascendenza.

Di grande rilevanza inoltre, per comprendere a pieno la “filosofia” di Papa Francesco, sono le due Esortazioni apostoliche: Evangeli gaudium (2013) e Amoris laetitia (2016). La prima concepita proprio come manifesto del pontificato presenta un Papa lievemente diverso rispetto alle apparenze. La globalizzazione deve conciliarsi con le peculiarità locali, e non sopprimerle, l’unità del mondo deve assumere in tutta la sua pregnanza la poliedricità delle differenze, e non pianificarle sterilmente.

Di straordinaria rilevanza è l’affermazione che Francesco fa a proposito della nostra conoscenza: “La realtà è più importante dell’idea” (231). Questo significa che ogni idealismo, anche buono, rischia di diventare astruso, separato dall’effettività della vita, morto, insensibile e improduttivo. L’esistenza invece è il baricentro sostanziale della fede, una testimonianza in prima persona che convoca l’altro, senza imporgli un convincimento ideologico, ma comprendendolo e aiutandolo nel suo cammino. Infatti, soltanto una fede realmente portata nella propria vita personale è in grado di comunicare se stessa e diffondersi al di fuori, nel cuore sensibile del prossimo.

Forse questa attenzione per gli scartati e i deietti, più di ogni altra, ci restituisce l’autenticità del pensiero di Francesco sulla carità e la missione della Chiesa. Non è importante far valere la verità sopra la testa degli altri, ma saper incarnare e portare la sua essenza con noi stessi nelle altre persone, il cui senso oltrepassa le miopi previsioni e gli a priori soggettivi, perché appartiene soltanto a Dio.

Come amavano dire Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, il cristianesimo non è una dottrina filosofica lucida e coerente, ma un’esperienza di amore tra Dio e l’uomo che può essere espressa anche in termini filosofici, comprensibili però soltanto nel materiale e spirituale contesto concreto dell’esperienza personale, nel quale la libertà si mette in gioco facendosi relazione e sottraendosi così alla tentazione malata del potere esclusivo e fine a se stesso.



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