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L’instabilità libica tra rimpatri ed elezioni politiche

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In attesa di capire quale governo nascerà e che tipo di politica intenderà attuare sul fronte della Libia e dell’immigrazione, l’Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni) ha diffuso gli ultimi dati sui rimpatri volontari assistiti dalla Libia verso i Paesi di provenienza: dal 28 novembre scorso, quando il programma “Voluntary Humanitarian Returns” ha avuto un’accelerazione, sono stati riaccompagnati a casa 10.171 migranti con il supporto dell’Ue, dell’Unione africana e del governo libico. Nello stesso periodo altri 5.200 migranti sono tornati indietro con il supporto degli Stati aderenti all’Unione africana. Nel complesso, dal gennaio 2017 i rimpatri assistiti sono stati 23.302.

Dal maggio dell’anno scorso, inoltre, secondo l’Oim 23.500 migranti hanno ricevuto un supporto appena tornati a casa e per circa 16mila di loro ciò ha comportato un aiuto per formazione-lavoro. Altri 5mila sono stati aiutati ad avviare attività. Naturalmente si tratta ancora di una goccia nel mare considerando che la stessa Oim quantifica in almeno 700mila i migranti tuttora bloccati in Libia, anche se il numero esatto è quasi impossibile da definire. Nel frattempo, alla vigilia della primavera e del bel tempo, i dati del ministero dell’Interno indicano un calo netto degli arrivi: 5.940 al 13 marzo, una diminuzione del 61,9 per cento e, in particolare, del 72,5 dalla Libia. Le tragedie non mancano: un eritreo ventiduenne arrivato con altri 90 a Pozzallo è morto poco dopo in ospedale perché malnutrito e con problemi respiratori. In pratica, è morto per fame.

Al netto delle polemiche e degli slogan elettorali, chiunque andrà al governo dovrà affrontare una situazione libica sempre molto tesa. Nell’ultimo report del Cesi, Centro studi internazionali, per l’Osservatorio di politica internazionale del Parlamento si disegna uno scenario nel quale cresce l’attività terroristica mentre continua la difficile opera di mediazione dell’inviato dell’Onu, Ghassam Salamé, tra il governo di Tripoli, guidato da Fayez al Sarraj, e il leader di Tobruk, generale Khalifa Haftar, nell’anno che dovrebbe portare a nuove elezioni. Significativo è stato l’attentato di Bengasi del 23 gennaio scorso: due autobombe provocarono 41 morti e almeno 80 feriti e avevano come obiettivo la Brigata 210 dell’Esercito di Haftar e i soccorritori giunti subito sul posto.

L’analisi del Cesi sottolinea che l’attentato, probabilmente opera di Ansar al-Sharia, dimostra la capacità di operare in una città controllata come Bengasi e di ritirarsi subito nell’entroterra utilizzando la regione a ridosso del Golfo di Sirte come punto logistico. Ciò comporta una probabile collaborazione con i gruppi jihadisti attivi nel Fezzan e nella regione tra Sahara e Sahel, dove tutti i terroristi sono coinvolti nei traffici di esseri umani, droga e armi per finanziarsi. La Libia centrale è di fatto fuori controllo e questo sta aiutando anche l’Isis a riorganizzarsi, oltre a essere potenzialmente attrattivo per foreign fighter di ritorno da Siria e Iraq.

Ecco perché Salamé insiste nel cercare una mediazione tra al Sarraj e Haftar, contando sul fatto che (rileva il Cesi) anche i principali sponsor del generale come Egitto ed Emirati Arabi Uniti sembrano aver capito che un accordo sia la soluzione migliore. Una posizione comune a quella italiana. In Libia però quasi tutto ruota attorno alle tante milizie e quindi le elezioni programmate dall’Onu entro quest’anno potrebbero da un lato dare segnali favorevoli a un accordo politico e dall’altro essere contestate dalle milizie che non vogliono perdere il proprio potere. Vista dall’Italia, è una situazione che costringerà anche il prossimo governo a un’attenta attività diplomatica.



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