Dopo i recenti successi nei viaggi in Egitto e Inghilterra (formidabile la sua foto con la Regina), nei prossimi giorni arriverà a Washington Mohammed bin Salman, erede al trono saudita e policy maker del regno. MbS, acronimo che piace molto negli Stati Uniti, è l’uomo che si è intestato l’ammodernamento dell’Arabia Saudita — che va da questioni più profonde, come differenziare l’economia dal petrolio, alle mosse sui diritti per le donne, quello alla guida di veicoli per esempio, che hanno occupato le prime pagine dei giornali internazionali.
Ma il giovane bin Salman è anche il promotore di una politica estera assertiva, che vede l’Arabia Saudita aumentare il confronto regionale con l’Iran. Attività che richiede il sostegno degli alleati locali, come l’Egitto, e dei protettori internazionali, Regno Unito e Stati Uniti su tutti (ma pure la sponda dell’impegnatissima Francia macroniana piace a Riad). A questo si deve il viaggio a Washington, dove presumibilmente MbS riceverà l’avallo dell’amministrazione Trump, che in quanto a visione anti-iraniana non è seconda ai sauditi — sul podio, appaiati, gli israeliani, con gli americani che fanno da trait d’union tra due mondi diversi e distanti, quello della più importante monarchia sunnita e l’altro della democrazia ebraica, creando un avvicinamento nell’ottica di un nemico comune e di un alleato comune.
Bin Salman è ansioso di vedersi rinnovato il sostegno americano dimostrato nella visita della corte trumpiana nel Golfo (lo scorso maggio), anche se (come sostengono i più maliziosi senza esporsi pubblicamente) teme che i trambusti interni alla Casa Bianca possano portarsi dietro problematiche anche sul suo fronte. In particolare, potrebbe aver timori per l’indebolimento subìto dal canale preferenziale con cui Riad faceva valere le proprie istanze a Washington, quello rappresentato da Jared Kushner. Il genero del presidente è in ottimi rapporti con MbS, conosce il terreno per via di contatti di business precedenti all’incarico da advisor presidenziale, godeva dell’importante consulenza continua di Dana Powell (intima di sua moglie Ivanka) ex vice consigliere per la Sicurezza nazionale con molti contatti e referenze nel regno saudita. Ora Powell si è dimessa (la sua, a inizio anno, è stata una delle tante rapide defezioni nella squadra di top brass di Donald Trump) e Kushner vede il suo potere in una fase di contrazione, col morso del Russiagate sul collo. Per MbS, che non ha ancora dimestichezza con il complesso mondo della politica washingtoniana, la porta Kushner era un accesso perfetto, ma ora che la security clearence del genero-in-chief è stata ridotta all’osso (proprio a causa dell’inchiesta sull’interferenza russa e del ruolo avuto da JK), occorre per Riad trovare rassicurazioni o altre vie.
In maniera più diretta, bin Salman cercherà anche sostegno sullo Yemen. Gli Stati Uniti considerano il Paese come un territorio di caccia per jihadisti, dato che ospita la principale filiale di al Qaeda (a cui la guida Ayman al Zawahiri ha affidato anni fa il compito di colpire all’estero) e uno spin-off califfale. Ma per Riad la crisi yemenita è una questione quasi esistenziale: i sauditi, per diretta volontà di MbS si sono invischiati in un intervento militare per bloccare l’avanzata dei ribelli Houthi che nel 2015 hanno scoperchiato il governo filo-saudita di Sanaa. Bin Salman aveva allora mosso la sua macchina operativa — forse il primo evidente passo assertivo negli affari regionali, dettato anche da logiche ragioni di contiguità territoriale — chiedendo il coinvolgimento di alleati locali (per primi gli Emirati Arabi, che sono tra i motori di questa linea più attiva di Riad) e poi gli altri.
Gli Stati Uniti, come la Francia, hanno lavorato da dietro, fornendo informazioni di intelligence e tenendo massima discrezione sul ruolo svolto; altri Paesi come il Regno Unito o l’Italia hanno accelerato i contratti militari per non lasciare i sauditi senza ferro. Ma l’operazione di MbS in Yemen — studiata anche come misura proxy contro l’Iran, amico degli Houthi sciiti — va piuttosto male, tanto che il re-de-facto di Riad ha da poche settimane rimosso i vertici dell’esercito nell’ottica di una revisione tattica che potesse anche ridar morale alle truppe. E nel frattempo, mentre nonostante il gap tecnologico i ribelli non arretrano, anche i partner internazionali hanno iniziato senza dar nell’occhio a smarcarsi dall’operazione, visto che la frustrazione saudita si è portata dietro centinaia di vittime civili (frutto di scarsa preparazione tecnica ma anche di decisioni tattiche fin troppo arrembanti).
La visita di bin Salman a Washington, come ricorda Bruce Riedl in un’analisi per la Brookings, segna 75 anni di alleanza, in un momento in cui il rinnovamento spinto dal futuro/attuale re ha bisogno più che mai di sostegno. Trump ha più volte sponsorizzando la Vision 2030, il ricambio, la lotta anti-corruzione, il ribaltamento dell’establishment e dello status quo che bin Salman sta muovendo — anche attraverso metodi autoritari e coercitivi, quelli per esempio visti con gli arresti che mesi fa hanno colpito alcuni papaveri del regno incrostato al potere. È quasi un programma in sintonia quello di MbS, una sorta di rivoluzione (per certi versi sostenuta populisticamente dalla propaganda), che non può non piacere a Trump — ed è tanto più apprezzata quanto genera reazioni critiche in Occidente per le controversie dietro al rafforzamento del potere interno, passaggio necessario per rendere la macro-operazione di bin Salman al sicuro da rivalse da Trono di Spade (la serie è tra le più evocate sui media occidentali per descrivere quello che MbS sta facendo a Riad).