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Essere nativi digitali non basta. Il valore dell’educazione e dell’accesso alla tecnologia

Di Paolo Ferri
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Mentre per gli adulti Internet non è strutturalmente implicato nella loro identità personale, tutte le generazioni nate dopo che Internet aveva già fatto il suo ingresso nelle abitazioni private considerano il mondo digitale parte integrante del proprio io. Ne consegue che l’autorappresentazione di sé su WhatsApp o Instagram costituisce parte integrante della propria identità. Considerando la Rete come non aliena da sé, i giovanissimi la utilizzano come strumento di auto-manifestazione.

Per i nativi digitali, è bene ribadire questo concetto, la Rete è una protesi strutturale della loro identità, mentre per i millennials è una protesi funzionale. Non deve sorprendere, quindi, che il problema principale dell’uso dei social da parte della generazione Zeta risiede proprio nella loro incapacità nel tracciare una linea tra la sfera pubblica e quella privata. Per i giovanissimi non vi è differenza tra comunicare di persona face to face e comunicare online. Percependo la Rete come uno strumento strutturale del comunicare quotidiano, è raro che i nativi digitali si comportino nel mondo digitale diversamente da come si comportano nel mondo fisico. Per i gen-zeta, non c’è quasi differenza tra un’offesa online e una detta a voce e per questo prendono maggiori precauzioni, perché danno più valore alle loro azioni online rispetto agli adulti.

Tuttavia, spesso non hanno coscienza dell’importanza che hanno i dati che condividono in Rete, e dell’uso che le aziende ne possono fare a fini commerciali. Inoltre, essi sono fuggiti dai social generalisti. Hanno smesso di utilizzare Facebook perché non hanno bisogno di una rete di contatti così estesa, e non usano neanche Twitter. Piuttosto, preferiscono Snapchat e WhatsApp. La scelta di social network dove la presenza degli adulti è meno marcata, o, come nel caso di WhatsApp, irrilevante, si spiega con la volontà dei gen-zeta di caratterizzare la loro esperienza con i social con una marcatura generazionale.

In qualche modo, la loro volontà di emancipazione dal mondo degli adulti li ha portati a rispolverare le modalità di comunicazione dei primi anni Duemila, quando si usava MSN, veicolo di una comunicazione tra pari e con un raggio di destinatari selezionato. Per i giovanissimi, il modello è l’uso che i propri genitori fanno del web. Tale insegnamento non può avvenire a scuola, perché il primo approccio dei gen-zeta alla Rete avviene in età pre-scolare. In Italia, a cinque o sei anni il 60% dei bambini è già online, in Inghilterra addirittura il 90%.

Il problema rimane quello dell’educazione alla cittadinanza digitale, oggi del tutto assente, sia a scuola sia in famiglia. I rischi che corrono i giovani che usano la Rete sono quindi di una duplice natura, da un lato la mancanza di distinzione fra pubblico e privato e dall’altro la questione delle fake news. Esistono certamente altri casi più estremi, essi tuttavia dipendono da problemi precedenti. In media, i social evidenziano un disagio precedente, non lo producono. Il tema delle fake news non va sottovalutato. In Italia, negli ultimi anni, si è assistito a un costante peggioramento dell’offerta informativa.

I giovanissimi sono i più esposti alla manipolazione delle notizie online e manca nel nostro Paese l’attenzione necessaria alla tutela dei minori di fronte ai media. Questo ovviamente non vale solo per Internet e per i social, ma anche per la televisione, dove le fasce protette sono spesso violate. In questo contesto, i nativi digitali sono penalizzati, perché mancano dell’esperienza necessaria per una fruizione più o meno critica dell’offerta. Inoltre, vi è effettivamente la possibilità che i giovani, usando i nuovi media, perdano l’abitudine a comunicare e interagire direttamente, vis-à-vis.

Tuttavia, dispiace dirlo, anche qui il rischio dipende in larga parte dal contesto socioeconomico nel quale sono inserite le persone. I più esposti, neanche a dirlo, sono le fasce meno abbienti e con meno opportunità. Difatti, è molto più difficile, ma non impossibile, che un ragazzo proveniente da una famiglia ricca di stimoli culturali stia dieci ore al giorno sui social network. Più facile che questo avvenga in contesti depauperati e all’interno di famiglie dove i genitori lavorano tutto il giorno, magari con impieghi non propriamente intellettuali. Inoltre, l’utilizzo più o meno costruttivo che si fa della Rete, legato spesso alla condizione socioeconomica a cui si appartiene, non fa che alimentare il divario già esistente fra le prestazioni scolastiche dei giovani provenienti da famiglie con condizioni socioeconomiche buone e giovani provenienti da famiglie con condizioni meno buone. Secondo una recente statistica Ocse, l’Italia è seconda, in questo record negativo, solo alla Cina.

In Germania, ad esempio, tale divario è molto più piccolo e c’è un tentativo di livellamento sociale maggiore. Tale divario, in una sorta di circolo vizioso, si riflette anche nell’uso che i ragazzi fanno della Rete, da cui alcuni riescono a trarre grandi vantaggi, mentre altri non solo non ci riescono, ma rischiano addirittura di farne un cattivo uso”. In questo senso, il web, invece di essere un moltiplicatore di uguaglianza, diventa un moltiplicatore di diseguaglianza. Quello che manca, per fare sì che tutte le classi sociali possano trarre vantaggio dalla Rete, sono delle politiche di accesso, distribuzione e formazione. In Finlandia esiste un sistema di Welfare digitale e la Rete è stata usata come strumento di crescita sociale, mentre negli Usa e da noi no. Non è la tecnologia in sé, ma l’uso politico che se ne fa che determina il risultato. Dato che Internet è una risorsa potentissima, è di primaria importanza garantirne l’accesso a tutti. In Italia su questo siamo indietro.



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