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Le complessità nel quadrante mediterraneo, il ruolo dell’Italia e degli Stati Uniti

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A fine febbraio la Marina americana ha spostato l’Iwo Jima Amphibious ready group (con le sue tre navi anfibie e duemilacinquecento Marines della 26th Meu, acronimo di Marine Expeditionary Unit) per farla entrare nella panoplia della Sesta Flotta americana. Detto senza termini tecnici, questo significa che la flotta della US Navy che fa stanza a Napoli, dove è schierata per controllare il Mediterraneo, ha adesso a disposizione un corpo anfibio di pronto intervento.

Come ha detto nello statement ufficiale il colonnello dei Marines Farrell J. Sullivan, che comanda la 26th Meu (unità pluripremiata con impieghi dalla Yugoslavia all’Afghanistan e più di recente contro lo Stato islamico), la presenza del team anfibio permetterà al comandate della Sesta di essere “in grado di rispondere rapidamente e in modo abbastanza flessibile per operare su tutta la gamma delle operazioni militari”.

Il capo dell’Iwo Jima invece ha sottolineato un altro aspetto: “Non vediamo l’ora di rafforzare le relazioni di vecchia data con i nostri amici attraverso lo scambio di idee e buone pratiche”, tutto con l’obiettivo di mantenere sicuro l’ambiente marittimo. Partnership e necessità: che cosa sta succedendo nel Mediterraneo?

Ci sono alcuni ordini di problemi. Per esempio, nella fascia orientale del mare che bagna l’Italia su tre lati – e per questo tutto ciò che avviene in quelle acque è uno stretto interesse nazionale per Roma – si stanno susseguendo scoperte energetiche importantissime. Dal pozzo Zohr che l’Eni ha iniziato a perforare a largo dell’Egitto (il più grande dell’area) a quelli che costeggiano Cipro e gli altri nel mare difronte Israele.

L’enorme interesse strategico di queste riserve è praticamente scontato, e mentre c’è un sostanziale allineamento degli attori in campo per aumentare la stabilizzazione del bacino anche grazie al network che i collegamenti di interessi e quelli fisici (i gasdotti) dovrebbero creare, si registrano posizioni turbolente come quelle della Turchia.

Da qui: a fine febbraio la nave italiana “Saipem 12000” (affittata dall’Eni) è stata bloccata dalla marina militare turca con una scusa evidente mentre si spostava per avviare perforazioni attorno Cipro. La ditta italiana è stata costretta a un passo laterale per non esasperare la situazione con Ankara, che nel sistema stabilizzante del gas ha una posizione particolare: vorrebbe essere inclusa, ma ha altrettanto interesse a giocare la carta per pressare su alcune dinamiche geopolitiche che la interessano (per esempio quelle cipriote: i turchi controllano la porzione settentrionale del Paese, e chiedono un’autonomia che né Nicosia né l’Unione europea sono pronti a concedere).

Le voci di corridoio al momento dello schieramento del gruppo Iwo Jima erano chiare: gli Stati Uniti mettono quelle navi e quel sistema di deterrenza per evitare situazioni spiacevoli simili a quelle subite dalla Saipem 12000 alle navi che la Exxon Mobil – gigante americano dell’energia un tempo diretto dall’ex segretario di Stato Rex Tillerson – stava spostando proprio in quegli stessi giorni per esplorazioni nelle acque Zee (Zona economica esclusiva) cipriote.

Anche l’Italia, durante i giorni del caso Saipem aveva mosso una nave militare a distanza discreta dalla scena, racconta una fonte che sceglie l’anonimato per parlare liberamente: “Non se n’è saputo niente perché la situazione era terribilmente delicata”.

Nelle passate settimane Washington s’è premurato di far sapere che il motivo dello schieramento a Napoli del gruppo anfibio da attacco (composto anche da elicotteri Cobra e caccia a decollo verticale Harrier) non era il contenimento turco: serve evitare tensioni e destabilizzazioni, una linea che accomuna la visione italiana e americana sul quadrante; nel caso specifico, dietro le accortezze c’è da considerare che la Turchia è un alleato ferreo americano, secondo esercito per numero nella Nato, partner militare, commerciale, politico dell’Occidente – almeno in linea teorica, perché, per esempio, la storia siriana di Ankara parla una lingua diversa da quella occidentale.

Altro odine di problemi per cui l’occhio americano sul Mediterraneo – considerato dalla dottrina sugli esteri statunitense parte del Grande Medio Oriente, ossia l’area Mena, Middle East and North Africa – è sempre più attento: la Russia. Da anni si assiste al transito di navi militari russe attraverso il Bosforo, impegnate soprattutto nel fornire sostegno al regime siriano (il sito Bosphorus Naval News è diventato specializzato in queste osservazioni, e tiene un diario praticamente quotidiano dei transiti).

Da qualche tempo l’interessamento della Russia al bacino è anche cambiato di livello: passano lo stretto da nord-est fregate specializzate nella caccia ai sommergibili, e secondo alcuni analisti potrebbero essere piazzate nel Mediterraneo non come semplice routine. Il loro ruolo sarebbe mandare un messaggio, far sentire la presenza, alla flotta americana; quella che per esempio ha lanciato una salva da 59 Tomahawk contro il regime siriano alleato russo, per rappresaglia punitiva dopo l’attacco chimico dell’aprile scorso a Kahn Shaykhoun.

Anche sotto questo aspetto, la cooperazione Italia/StatiUniti, e Nato, è centrale. Venerdì 16 marzo, per esempio, s’è conclusa l’esercitazione congiunta “Dynamic Manta”, e, come ha spiegato al sito Stars and Stripes (emanazione semi-indipendente del Pentagono) il comandante dei sottomarini Nato, il contrammiraglio americano Andrew Lennon, esercitazioni come quella che si è svolta a largo della Sicilia permettono di far sapere a Mosca che l’Alleanza può contare su un sistema integrato di risposta per individuare i sommergibili russi in qualsiasi momento. Dunque, il messaggio è di dissuasione, davanti all’aumento degli schieramenti russi.

Ma anche in questo caso, lontana dalla provocazioni e dalle posture militari, una sorta di stabilizzazione meno visibile può passare dal network energetico: la Russia è dentro al pozzo Zohr perché Eni ha ceduto a Rosneft (la petrolifera, e non a Gazprom) una quota abbastanza significativa. Dunque l’interesse profondo russo è garantire una stabilità che permetta di operare tranquillamente alla società statale guidata da uno dei più fidati consiglieri del presidente Vladimir Putin, Igor Sechin.

La presenza russa si aggancia anche a un altro ordine di questioni, quelle nordafricane, e anche in questo caso rientra in una traiettoria stabilizzante. Per l’Egitto, ad esempio, i ruoli americani e russi sono garanzie: gli Stati Uniti sono alleati solidi e fidati che possono catalizzare intese come quelle con Israele (con cui gli egiziani hanno chiuso un accordo di fornitura sul gas, mandando ad Ankara il messaggio che quel business funzionerà con o sé Turchia, e tagliando geograficamente la strada a certe ambizioni iraniane dalla Siria). E anche i russi, inseriti nei business con Rosneft, possono farsi garanti a loro modo: la società ha avuto un’iniezione di capitali da parte del fondo sovrano del Qatar, e dunque Doha  – proprietaria anche di rigassificatori (come quello di Porto Viro, Rovigo, insieme agli americani di Exxon) destinati a lavorare sul prodotto mediterraneo – ha tutto l’interesse a spingerne le attività, evitando destabilizzazioni.

Il Cairo apprezza, perché vede i qatarini – finanziatori della Fratellanza combattuta dal governo egiziano – concentrati in attività che portano all’equilibrio. Da qui, il riflesso su un altro terreno di confronto libico: Russia, Stati Uniti, Italia, Francia, Unione Europea, Egitto, Qatar, sono tutti Paesi che hanno mosso interesse (e interessi) nella soluzione dell’intricata crisi in Libia, che da anni è l’intricata cartina di tornasole di come le questioni mediterranee coinvolgano attori con differenti visioni e qualche frizione, impegnati in una misurata stabilizzazione fatta di mosse che preservino però le convenienze di ognuno, dove Stati Uniti e Italia – per ragioni diverse – hanno più volte svolto un ruolo di catalizzatori.

 

 

 

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