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L’accordo nucleare con l’Iran sarà al centro dei colloqui tra Macron e Trump

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Il 12 maggio scadrà una data cruciale per il mantenimento degli Stati Uniti nel sistema multilaterale che ha costruito l’accordo sul nucleare iraniano (si deciderà se ripristinare le sanzioni atomiche contro Teheran, e dunque riportare tutto indietro): Parigi, ai tempi in cui l’amministrazione Obama tesseva le trame del deal, faceva la parte del paese più scettico nei confronti dell’intesa con la Repubblica islamica, ma l’ingresso a gamba tesa di Donald Trump nell’affare ha cambiato il contesto.

Ora sembra essere il presidente francese, Emmanuel Macron, l’unico che potrebbe fa cambiare idea alla Casa Bianca sul ritiro americano dall’intesa – a lui spetta, dunque, il compito di difendere una posizione molto ampia, che sostanzialmente contraddistingue tutti gli alleati europei, i quali credono nella bontà (anche se non assoluta) del Nuke Deal. (E allo stesso tempo Macron vuol proteggere gli interessi che la Francia s’è già costruita con i movimenti giocati in anticipo da Total in Iran).

Su questo ruoterà parte delle conversazioni che i due leader terranno nella visita di stato francese negli Stati Uniti.

Se non si troveranno punti in comune tra i quattro partner occidentali tali da far restare in piedi l’accordo (ossia, se Regno Unito, Germania e Francia non riusciranno a convincere Trump a restare dentro), la conseguenza sarà un duro colpo per il sistema-Occidente. Per questo da mesi, il capo della pianificazione del dipartimento di Stato americano, Brian Hook, sta negoziando con suoi omologhi europei il come accontentare Trump senza far naufragare l’intesa.

Anche perché il ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif, che tanto ha lavorato per il deal al fianco dell’amministrazione Obama, domenica a “Face the Nation” della CBS è stato chiarissimo: se gli Stati Uniti escono, noi ricominceremo subito a lavorare – “Accelerando” – per il programma nucleare. Poi, su Twitter, è stato più misurato, dicendo che in effetti il presidente francese ha ragione a pensare che “non esiste un piano B”.

Punto cruciale per gli americani – attorno a cui ruotano le trattative con gli europei – è mantenere con l’Iran una posizione molto severa. Il presidente americano è stato piuttosto chiaro mesi fa, quando ha spiegato che sì, gli iraniani stanno mantenendo le promesse fatte al 5+1 (il nome con cui il sistema di paesi che ha siglato l’intesa nel 2015 viene chiamato), ma non basta.

Perché? Innanzitutto non garantisce completa trasparenza sugli accessi ai siti. E poi Teheran, per dirla come il Prez, compie “azioni maligne” in Siria e in tutto il Medio Oriente. Trump si riferiva alle operazioni di influenza politica armata che l’Iran gioca attraverso i propri partner locali all’interno dei vari paesi della regione – gli Hezbollah in Libano, il loro peso a Beirut e il loro ruolo regionale è il più mastodontico esempio di questo schema aggressivo.

Poi c’è la questione missili balistici: l’accordo sul nucleare (che tecnicamente si chiama Joint Comprehensive Plan of Action, Jcpoa) non tratta questo argomento, ufficialmente incluso in una risoluzione con cui l’Onu vietava all’Iran di sviluppare i vettori. Ma Teheran non sembra essersi fermato, e i falchi americani ne danno un’interpretazione che più o meno dice così: il Jcpoa congela solamente il programma nucleare iraniano, per questo gli ayatollah hanno dato ordine ai tecnici militari di studiare intanto nuovi missili balistici, così tra qualche dozzina di anni, quando le condizioni del deal atomico saranno venute meno, si ritroveranno già pronti i sistemi di trasporto delle testate.

Trump vorrebbe trovare il modo di accorpare azioni punitive per questa doppia strategia maligna – che è anche il problema esistenziale di due suoi partner, l’Arabia Saudita e Israele – col rispetto del deal; in più chiede che le restrizioni imposte all’Iran sull’uranio arricchito vengano prolungate, stralciando quella parte dell’accordo che le interromperebbe nel 2025.

È stato lo stesso segretario di Stato nominato, l’attuale direttore della Cia Mike Pompeo, a parlare di questa tattica durante la sua audizione di conferma alla commissione del Senato che l’ha scrutinato. Però è tutto molto complicato: nuove sanzioni potrebbero innervosire troppo Teheran – e poi c’è da tenere conto che il sollevamento delle vecchie sanzioni sul nucleare ha aperto il mercato iraniano a diverse società occidentali.

Pompeo, che un tempo aveva criticato il deal e proposto come unica soluzione un bombardamento diretto contro i siti atomici iraniani, ha detto che in questo momento l’amministrazione americana è comunque “sulla via diplomatica” (“Come con la Corea del Nord”, spiegava). Per questo Trump avrebbe tenuto l’accordo al centro delle conversazioni con i leader europei ospitati in questa settimana. Ossia, Macron prima e Angela Merkel il 27 aprile.

Non arriverà una decisione definitiva di Trump durante la visita del presidente francese, dicono gli staffer di entrambi i paesi al Washington Post, ma la strada è stretta: come ha detto Macron durante l’intervista concessa domenica alla trumpiana Fox News, l’accordo non è perfetto, ma “cosa c’è di meglio?”. Nella lettura della dichiarazione, la possibilità ad aprire alle richieste di Trump su una posizione più dura nei confronti di Teheran.

Perché in effetti il contenimento iraniano è una questione sentita. Per esempio, è stato uno dei motivi profondi che ha ispirato  l’azione congiunta di Washington e Parigi, e Londra, in Siria, in via punitiva per l’attacco di Douma. Teheran ha una grossa influenza sul destino siriano, controlla le forze militari di Bashar al Assad tanto quanto la Russia, ma in più ha una diffusione politica grazie ai movimenti armati sciiti. La Siria sta diventando una piattaforma geopolitica armata per Teheran.

Il contrasto all’Iran – che pure Macron vede necessario anche per accontentare gli alleati sauditi – è uno dei punti attorno a cui adesso, sconfitto statualmente lo Stato islamico, ruota la presenza franco-americana al nord della Siria. Nel pragmatismo metodico con cui Macron si avvicina a Trump, Parigi cercherà di usarlo come un punto di vicinanza, ottenendo magari una linea meno agguerrita ed esplicita da parte di Washington, in modo da renderla potabile in Europa.

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