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La strategia cinese. Perché Pechino compra (ancora) titoli di Stato Usa

dazi

Secondo i dati rilasciati pubblicamente dal Tesoro americano, nel mese di febbraio la Cina ha aumentato il proprio portafoglio in titoli di stato americani. Pechino ha comprato altri 8,5 miliardi dollari di buoni del tesoro, toccando così quota 1,18 trilioni: il governo cinese è il singolo più grosso proprietario di titoli statali statunitensi. Quello di febbraio è stato l’aumento maggiore degli ultimi sei mesi.

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L’acquisto (come spiega il grafico sopra riportato fatto dal Financial Times) non sarebbe tanto stupefacente se non si inserisse in un contesto delicatissimo, segnato dalle tensioni tra i due paesi.

Diversi analisti ritengono che Pechino possa giocare questa carta come “leverage” nei confronti delle pressioni americane (e lo stesso ambasciatore cinese negli Stati Uniti, Cui Tiankai, non l’ha escluso). Washington ufficialmente punta sulla riduzione dello sbilancio commerciale, ma è piuttosto interessata a creare un sistema di concorrenza forte per bloccare l’avanzata cinese in molti settori tecnologici – avanzata legata anche a pratiche scorrette come lo spionaggio industriale e il furto di proprietà intellettuale, per questo l’innalzamento delle tariffazioni su determinati prodotti suona più come una misura sanzionatoria che come mossa commerciale.

Il presidente americano Donald Trump, che ha dato il là allo scontro a suon di dazi partito a marzo, non più tardi di due giorni fa ha attaccato di nuovo apertamente la Cina (e Mosca), accusandola di essere un manipolatore di valuta (la svalutazione del Renminbi è uno dei vari trucchetti scorretti che Pechino potrebbe aver usato per agevolare i commerci alle proprie imprese).

La questione è stata ripresa dai giornalisti della CNBC mentre intervistavano il segretario al Tesoro, Steve Mnuchin: in passato, ha detto il ministro americano, la Cina ha svalutato spesso la sua moneta, “ma da quando è entrato in carica il presidente” hanno invertito questa tendenza. Ora, ha spiegato Mnuchin, Trump – che sul comportamento cinese ha cambiato idea più volte – vuole assicurarsi che le cose non cambino: quel tweet “è stato un colpo di avvertimento”.

Mnuchin si è trovato in una posizione scomoda, perché pochi giorni prima il dipartimento che lui governa aveva pubblicato il rapporto semestrale con cui monitora le attività monetarie dei più importanti partner commerciali americani (la Cina è il più importante), e si scriveva che nessuno stava svalutando moneta.

Poi il presidente ha usato la questione della svalutazione per infuocare lo scontro aperto a tutto campo con Pechino, contraddicendo di fatto il suo segretario al Tesoro, ma senza fornire prove solide; anzi, lo yuan ha guadagnato circa il 10 per cento sul dollaro negli ultimi 12 mesi ed è ai massimi da agosto del 2015.

I dati di febbraio non risentivano ancora dello scontro tra Cina e Stati Uniti, che è comunque “una storia a lenta combustione”, come ha detto alla Reuters Gennadiy Goldberg, stratega dei tassi di interesse alla TD Securities di New York, che ritiene la strategia cinese svincolata da questo confronto. La Cina per altro compra titoli del Tesoro americano per ragioni di politica monetaria e per regolare la sua valuta.

Nota aggiuntiva: dei 22 miliardi di titoli statali comprati dai governi europei, 18 sono finiti a Londra; e forse anche a questo si lega l’ondata di freschezza che ha rinvigorito la special relation tra Gran Bretagna e Stati Uniti su questioni internazionali primarie, come la Siria o il caso Skripal. Altri 14 miliardi se li è presi Tokyo: i giapponesi restano secondi dietro alla Cina per quantità, con un rapporto delicato da giocare con Washington (la Casa Bianca pochi giorni fa ha attaccato il Giappone, colpevole di aver sfruttato commercialmente l’alleanza con gli Stati Uniti).

 



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