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Sono gli imprenditori il motore per lo sviluppo dell’Italia. La versione di Antonella Mansi

La melina della politica che ancora non riesce a trovare la quadra per formare un nuovo governo? “Non mi stupisce particolarmente. Ma penso che ci sia la necessità di tornare a parlare il più velocemente possibile delle questioni di merito che interessano gli italiani, il mondo della produzione, le imprese ed i lavoratori”. Firmato Antonella Mansi, vicepresidente di Confindustria al suo secondo mandato, che è intervenuta al dibattito organizzato dall’Istituto per la Competitività in occasione della presentazione del libro dal titolo “Nel Paese dei disuguali“, scritto dal giornalista del Corriere della Sera Dario Di Vico (qui le foto di Umberto Pizzi). “Cucire all’infinito la tela di Penelope non serve a nessuno, soprattutto al Paese”, ha sottolineato Mansi in questa conversazione con Formiche.net. Come a dire che la politica è chiamata nel più breve tempo possibile a trovare una soluzione allo stallo post elettorale.

È giusto dire che continuità e attuazione delle riforme rappresentano in questa fase la priorità degli imprenditori?

In questi anni ci sono state riforme che hanno prodotto risultati significativi. Penso a Industria 4.0. o al Jobs act che possono essere ancora potenziati ma che, certo, hanno portato il Paese sul binario della ripresa. La quale però – non dobbiamo assolutamente dimenticarlo – è ancora molto fragile, come del resto dimostrano in modo chiaro i numeri dell’ultimo trimestre.

Non si deve vanificare il lavoro che è stato fatto?

Penso che la politica, in questa fase, debba anche tener conto di un contesto internazionale che non è dei più semplici. Una ragione in più per indurre tutti a una rinnovata responsabilità. Su questo non ci sono dubbi: abbiamo bisogno di un Paese responsabile che abbia chiaro che l’obiettivo e la missione di fondo sono creare occupazione. Le disuguaglianze si combattono con la crescita, non ci sono altri strumenti. Riteniamo che ci debba essere grande attenzione al sistema imprenditoriale non in difesa di una categoria, ma come strumento e motore per la crescita e lo sviluppo dell’Italia.

Lei ha parlato di disuguaglianze. Da imprenditrice e da italiana, quanto la preoccupa questo problema?

Molto. Come emerge dal libro di Dario Di Vico, ci sono diverse forme di disuguaglianza, della quale non si può dare una lettura unica. Quella economica è più semplice da decifrare perché ci sono gli indicatori che ci permettono di capire come ci posizioniamo nell’ambito del contesto internazionale. Ma ci sono anche altri tipi di disuguaglianza, che sono altrettanto gravi e impattanti. C’è bisogno che la politica metta in campo uno sforzo eccezionale per la stessa tenuta della democrazia.

E intanto la povertà aumenta. Che cosa deve fare il nostro Paese?

Occorre rispondere con un piano organico di politica economica che guardi prima di tutto al lavoro come missione Paese. Bisogna insistere su tutti i fattori utili alla crescita economica che porti a uno sviluppo dell’occupazione. Per questo dobbiamo puntare sulle imprese: è un mestiere molto complicato, quello degli imprenditori, le cui prospettive credo non si possano più disgiungere dalle sorti del Paese. Lo diciamo da cittadini e anche da imprenditori. Più il Paese cresce e più saremo nelle condizioni di fare bene il nostro mestiere. Più le imprese cresceranno, più il Paese potrà prosperare.

Pensa che in qualche modo la crisi abbia responsabilizzato gli imprenditori verso il Paese?

Penso onestamente che gli imprenditori responsabili lo siano sempre stati. La crisi, più che altro, ha falcidiato una buona parte delle nostre aziende e ha costretto tutte le altre a crescere e cambiare. Ricordiamoci sempre delle migliaia di imprese che ancora portano orgogliosamente in giro per il mondo la bandiera del made in Italy. Restiamo la seconda potenza manifatturiera d’Europa. E considerato quanto è avvenuto negli ultimi anni, non è certamente banale.

Però sembra in qualche modo cresciuta la coscienza sociale del mondo imprenditoriale. Non è così?

Da questo punto di vista, oggi c’è sicuramente una cultura crescente. Si è alzata l’asticella. La maggioranza degli imprenditori ha capito che il benessere complessivo del proprio territorio, della propria area di riferimento, è un fattore di successo anche dell’impresa.

Non è cambiato in questi anni pure il rapporto tra imprenditori e lavoratori?

Le relazioni industriali si sono molto evolute, come dimostra la firma del “Patto della fabbrica”. È stato un processo continuo e costante che ha favorito il passaggio dalla contrapposizione al confronto. Confindustria da tempo esprime una rappresentanza che è ponte tra gli interessi delle imprese e gli interessi del Paese.

Ritiene che la lezione della globalizzazione sia stata compresa dalle imprese?

Direi assolutamente di sì. Oggi le imprese che non hanno modificato il loro schema organizzativo, agganciato le catene internazionali del valore e che non si sono affidate a strumenti di finanza non ci sono più. O, comunque, faticheranno moltissimo a resistere nei prossimi anni.

Questo messaggio è così chiaramente passato?

Ormai tantissime imprese hanno compreso la necessità di creare una massa critica sufficiente a sostenere una competizione che si è fatta globale. Dopodiché, ovviamente, non si può dire che siamo tutti arrivati. Fatto 100 il mondo delle imprese, ce ne sono venti che stanno bene, sessanta che stanno in mezzo al guado e devono cambiare pelle e venti su cui dobbiamo lavorare fortemente per non perderle.

Piccolo forse è romantico, ma certamente non è bello al tempo della globalizzazione?

Fortunatamente siamo riusciti a superare da anni questa impostazione. Il nostro presidente Vincenzo Boccia viene dalla piccola industria ed è stato tra i primi a dire che piccolo non è bello ma solo una fase dell’impresa: si nasce piccoli e poi si deve crescere. E’ un imperativo categorico cui nessuno si può sottrarre.

Non c’è più spazio nella competizione globale per le piccole imprese?

Bisogna crescere, indiscutibilmente. Ma poi ognuno lo deve fare in una misura che sia compatibile con il proprio mercato di riferimento. Ci sono mercati che richiedono probabilmente più flessibilità, capacità d’adattamento e resilienza. Non esiste una ricetta valida per tutti. Di sicuro, dobbiamo passare dall’atteggiamento naturalmente individualistico dell’imprenditore a un approccio più relazionale. Che significa stringere alleanze e costruire reti che aiutino le imprese a stare sui mercati in maniera maggiormente efficace ed efficiente.

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