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Le sfide ​per l’Italia di oggi e ​per ​l’Europa di domani. Parla Beatrice Covassi (Commissione Ue)

All’Italia serve al più presto un governo per “stare ai tavoli negoziali giusti al momento giusto”. È la ​rappresentante permanente della ​Commissione Europea nel nostro Paese ​a lanciare l’appello. Beatrice Covassi è ambasciatrice del governo di Bruxelles ora guidato da Jean-Claude Juncker ed​ è una delle voci italiane più autorevoli ed influenti nella Ue grazie ad​ un’esperienza quindicennale nelle istituzioni e nella diplomazia europea. Dalle ultime frizioni con il governo italiano sul caso Alitalia e sul terremoto dell’Aquila alle sfide di lungo periodo che attendono l’Ue, Difesa comune, riforme dell’eurozona e del sistema di Dublino in primis, l’ambasciatrice ha risposto a tutte le nostre domande con quella apprezzabile​ franchezza ​che spesso si chiede proprio alle istituzioni europee.

Beatrice Covassi, ci può dire quali sono le aspettative e i timori della Commissione sull’attualità politica italiana?

Seguiamo gli sviluppi con grande attenzione e interesse. Come ha ribadito il presidente Juncker siamo fiduciosi che il presidente Mattarella saprà trovare la quadra istituzionale, compito non facile. Le tempistiche saranno importanti​: la Commissione non vuole mettere fretta, ma è utile ​ricordare che a giugno ci sarà un Consiglio particolarmente rilevante. Oggi è in corso un dibattito fondamentale sul futuro dell’Unione e le sue prospettive finanziarie. Un Paese come l’Italia ha tutto l’interesse a stare nei tavoli negoziali giusti al momento giusto.

L’apertura dell’indagine sul prestito ponte da 900 milioni di euro ad Alitalia da parte della Commissione è giunta come un fulmine a ciel sereno. Quali sono le chances che il prestito sia considerato un aiuto di Stato?

Non mi esprimo sulle chances perché se ci riuscissi sarei Commissario alla concorrenza (ride, ndr). Nel caso Alitalia l’indagine della Commissione vuole verificare se il prestito supera la durata massima di sei mesi prevista e se si limita al minimo necessario o va oltre. Parliamo di casi sensibili che purtroppo vengono spesso strumentalizzati. Così come strumentali mi sembrano le polemiche sul caso del terremoto de L’Aquila.

La Commissione Ue considera aiuti di Stato le tasse sospese a 350 imprenditori locali all’epoca del terremoto dell’aprile 2009 e ha aperto una procedura d’infrazione. Una simile richiesta non rischia di dare l’immagine di un’Europa poco solidale e troppo legata al cavillo legale davanti alle emergenze umanitarie?

Assolutamente no. La prova è che a inizio aprile la Commissione ha approvato un regime italiano di 44 milioni di euro a sostegno della ripresa economica per le zone colpite dai terremoti del 2016-2017. A questo si aggiungono le altre misure per il terremoto del Centro Italia: il co-finanziamento a un tasso straordinario del 95% per finanziare la ricostruzione con il Fondo Europeo di sviluppo regionale e la tranche di 1,2 miliardi di euro dal Fondo di solidarietà, l’aiuto più alto mai erogato per una calamità naturale. È nell’interesse del cittadino che la Commissione controlli affinché questi aiuti non siano dati alla cieca, ma rispondano a criteri di trasparenza e congruità con i motivi per cui sono stati erogati.

Le elezioni italiane sono state l’ennesima tornata elettorale in Europa che ha visto crescere le forze euroscettiche. Come rilanciare il messaggio europeista?

Questo dato può essere letto anche positivamente. Il fatto che le ultime tornate elettorali nazionali siano state così fortemente caratterizzate da dibattiti sui temi europei, penso anche alla Francia, all’Olanda e all’Austria, costringe i cittadini a guardare all’Europa, a rimetterla al centro. Serve una nuova narrativa che racconti un’Europa di crescita, di opportunità, non solo l’Europa dell’austerità e delle regole. Ma soprattutto serve uno scatto ulteriore, di cui la Commissione vuole essere partecipe: riconnettere i cittadini con le istituzioni, riscoprire un’Europa dei popoli, per far tornare i cittadini europei protagonisti, anche in vista delle elezioni europee del 2019.

Rimangono però ferite aperte come la Brexit. Quali sono le maggiori difficoltà incontrate nel corso dei negoziati fra Commissione e Downing Street?

La difficoltà maggiore per i negoziatori è stata dover rescindere una serie di rapporti giuridicamente complessi, coltivati per oltre quarant’anni. A questo si è aggiunto il dato politico: ci sono state delle pressioni, soprattutto da parte inglese, per muoversi in direzioni non sempre chiare. Ultimamente il governo britannico ha dichiarato che uscirà da tutto, compresa l’unione doganale, smentendo voci che circolavano negli ultimi tempi. Il nostro negoziatore capo Michel Barnier ha sempre ribadito l’importanza delle tempistiche: il 29 marzo del 2019 il Regno Unito uscirà dall’Ue, non abbiamo un tempo indefinito per negoziare l’uscita. Bisogna procedere in modo spedito.

Quali sono i punti prioritari dell’agenda negoziale?

Innanzitutto la definizione del “divorzio” finanziario su cui serve far chiarezza. Poi i diritti dei cittadini, che devono essere reciprocamente garantiti. Infine la delicata questione irlandese: è fondamentale mantenere il Good Friday Agreement e non tornare indietro nella storia. La posizione della Commissione è sempre stata trasparente sulle priorità: prima negoziamo l’uscita, poi vedremo quale sarà la forma delle relazioni future con il Regno Unito.

Nei prossimi mesi l’Ue è chiamata a misurarsi con la riforma del sistema di Dublino sull’accoglienza, un tema che sta particolarmente a cuore all’Italia, impegnata in prima linea nei soccorsi.

L’auspicio della Commissione è che si possa arrivare a un accordo politico sul diritto d’asilo prima della fine del mandato. Procrastinare il problema fino alla prossima Commissione significherebbe non rispondere alle richieste dei cittadini. Quanto ai meccanismi di redistribuzione: vogliamo renderli più condivisi e automatici. La sentenza della Corte di Giustizia e la decisione del Consiglio sono stati due importanti passi avanti per rendere effettivo il ricollocamento, forse potevamo agire più in fretta. C’è poi un problema politico: deve passare il messaggio che l’emergenza di uno Stato membro, che provenga dal Sud o Nord Europa, è un’emergenza di tutti.

Ci sono segni tangibili di un impegno più condiviso?

Ne cito due: la creazione della guardia costiera europea e il potenziamento di Frontex, che oggi vanta 1350 esperti sulle principali rotte migratorie. Un accordo che, va ricordato, è stato raggiunto in soli nove mesi. Restano divergenze d’opinioni sul sistema di finanziamento: è stato stimato che se volessimo un controllo integrato delle frontiere sulla scia di quello statunitense dovremmo allocare circa 130 miliardi di euro.

Come può l’Unione intervenire in Africa per rilanciare l’economia degli Stati dove hanno origine le rotte migratorie?

Con il Fondo per l’Africa e il Fondo Esterno dell’Unione, che risponde alla logica del partenariato pubblico-privato del fondo Juncker. L’obiettivo è moltiplicare gli investimenti nell’economia locale e creare uno sviluppo durevole in Africa. L’ultimo tassello per completare il quadro è la migrazione legale. Forse un punto debole dell’Europa, dove servono nuove idee.

La Comunità di Sant’Egidio promuove da anni i corridoi umanitari. Una soluzione che può essere adottata su larga scala?

Per i rifugiati l’Ue dispone già di un piano che prevede un sussidio di 10.000 euro per il reinsediamento in uno Stato membro. Costruendo canali di migrazione legale si creano le premesse per accogliere i cosiddetti “migranti economici”, cioè la gran parte di quelli che sbarcano sulle nostre coste. E soprattutto per uno sviluppo duraturo in Europa, dove non solo mancano molte skills, ma c’è un tasso di invecchiamento molto alto. L’obiettivo è trovare anche per i migranti economici, nei limiti del possibile, una forma di inquadramento legale nel mondo del lavoro simile alla Blue card per i lavoratori altamente qualificati, che è l’equivalente della green card in America.

Un’altra sfida che metterà alla prova il progetto europeo è la Difesa Comune. Siamo ancora ai reflection papers o la Pesco ha aperto una nuova fase?

Credo che il risultato più concreto raggiunto su questo fronte sia il Fondo Europeo per la Difesa, che comprende il finanziamento della ricerca e la condivisione di attrezzature e know how. Il costo della “non Europa” nel settore della Difesa è altissimo e crea delle enormi economie di scala. In futuro ci sarà la possibilità di fare appalti congiunti a livello europeo. Se siamo arrivati qui è perché non siamo partiti dalle dichiarazioni di principi ma dal progetto comunitario.

Se la Difesa Comune è ancora lontana all’orizzonte, a volte sembra mancare anche una politica estera europea. La risposta di Bruxelles alla crisi siriana, ad esempio, è rimasta sullo sfondo rispetto alle iniziative dei singoli Stati.

Sulla Siria va dato merito all’Alto rappresentante Federica Mogherini di aver ottenuto una dichiarazione congiunta firmata da 28 Stati. L’Unione Europea si basa sui poteri conferiti, non può agire come e quando vuole. Per rafforzare la politica estera comune bisogna unire al soft power europeo una serie di strumenti di coordinamento più forti. È un lavoro recentissimo: il Servizio Esterno comune è nato solo nel 2011, c’è ancora molto da fare.

Dove bisogna intervenire?

L’Ue non è preparata al meglio per le grandi sfide che toccano da vicino i timori dei cittadini come la globalizzazione economica, la sicurezza e la lotta al terrorismo. In questi campi, e in particolare sul lato economico, l’Ue rimane zoppa e gli Stati ricoprono il ruolo del leone. Non è stata ancora completata la costruzione di un’unione fiscale e non esiste un ministro dell’Economia comunitario, cosicché si deve ricorrere a organismi intergovernativi come l’Eurogruppo.

Ci sono i tempi per dare il via alle riforme economiche prima che termini il mandato della Commissione?

La Commissione ha fatto proposte molto audaci per l’Eurozona, e come per la riforma di Dublino cercherà di chiudere la partita al novantesimo minuto per evitare di lasciare cantieri aperti.

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