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Il rebus Siria e l’incertezza dell’Italia. Parla il direttore Maurizio Molinari

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Mentre la squadra internazionale di esperti dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opac) avvia le indagini sul campo per accertare le responsabilità dei crimini di Douma, all’Onu rimane alta la tensione per l’attacco aereo su Damasco coordinato da Stati Uniti, Francia e Regno Unito. Un’operazione mirata, quasi chirurgica, che però apre un nuovo fronte in Medio Oriente coalizzando i Paesi sunniti e Israele contro la presenza di Russia e Iran nella regione e riconquistando temporaneamente la Turchia di Erdogan. Una mossa che ha tutta l’aria di rientrare in una strategia di lungo periodo di Washington. Donald Trump chiede ai suoi alleati una chiara scelta di campo, ma l’Italia è costretta a rimanere ai margini, alle prese con faticose trattative di governo dovute ai veti incrociati. Abbiamo cercato di fare chiarezza nel risiko siriano assieme al direttore de La Stampa Maurizio Molinari, con un occhio rivolto allo stallo di palazzo Chigi da cui dipende la collocazione del nostro Paese nella “Nuova Guerra Fredda”.

Il raid in Siria di Stati Uniti, Francia e Regno Unito è stato solo un avvertimento a Putin e Assad o avrà pesanti ripercussioni sullo scenario mediorientale?

Il raid nasce da una doppia intenzione dell’amministrazione Trump. La prima è creare una coalizione contro l’uso di armi di distruzioni di massa, trasformando la linea rossa che Obama aveva tracciato nel 2013, e che Trump ha applicato per la prima volta nel 2017, in uno strumento di aggregazione. Da ora in poi la linea rossa potrà essere applicata e fatta rispettare in qualsiasi momento. La seconda è ridurre l’influenza strategica della Russia in Medio Oriente, indebolendo il suo principale alleato, cioè Bashar al-Assad. La proiezione russa nella regione si è rafforzata a partire dal salvataggio del regime siriano nel settembre del 2015. Per indebolire questa proiezione ora Trump colpisce l’alleato siriano del Cremlino. Ad ogni modo sia la linea rossa che l’indebolimento del Cremlino nella regione sono due processi di medio termine. Destinati a segnare il rapporto fra Washington e gli alleati.

Nella strategia degli Stati Uniti c’è un piano per un regime change a Damasco?

Il regime change era una strategia distintiva dell’amministrazione di George W. Bush che non è stata fatta propria dall’amministrazione Trump. La stessa premier britannica Theresa May ha detto con chiarezza che non è questa l’intenzione del raid. L’obiettivo è cambiare l’equilibrio di forze in Siria indebolendo la Russia e rafforzando la coalizione occidentale. È uno schema classico da Guerra Fredda, che spiega perché il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres abbia usato l’espressione “Nuova Guerra Fredda”.

Come cambiano gli equilibri in Siria dopo lo strike della notte scorsa?

La principale novità tattica innescata dal raid è la scelta della Turchia di Erdogan di sostenerlo. Il governo di Ankara prima del raid era uno dei principali interlocutori della Russia: nel vertice di dieci giorni fa Putin, Erdogan e Rohani si erano incontrati per discutere di fatto una spartizione della Siria. Di fronte al raid Erdogan cambia posizione e si schiera con gli americani. E’ una novità, non di poco conto.

Perché il presidente turco si è riavvicinato gli alleati della Nato?

Perché per Ankara è decisivo il fattore-Assad. Erdogan vuole la sua deposizione, come l’Occidente. Grazie al blitz, Trump ha ribadito che l’avversario è Assad e ciò gli ha consentito di allontanare Erdogan da Putin. Il cambio di rotta della Turchia si lega al tacito sostegno del Qatar per il blitz. Turchia e Qatar compongono, all’interno del mondo sunnita, lo schieramento rivale dei sauditi. Oggi, grazie al raid, gli Stati Uniti hanno dunque la possibilità di ricomporre il fronte sunnita, creando un fronte compatto contro il disegno strategico rivale dell’Iran, alleato di ferro di Putin e protettore di Assad.

La scorsa notte un’esplosione in una base militare iraniana a Jabal Azzan, a sud di Aleppo, ha fatto pensare a un raid israeliano, ipotesi lanciata dai media siriani e poi smentita dai canali di Hezbollah. Rimane però alta la tensione per un possibile intervento israeliano in Siria contro gli iraniani.

Lo schema da Guerra fredda del confronto in Siria fra Stati Uniti e Russia rende possibili scontri per procura fra i due campi, e dunque fra Iran e Israele. Il primo è il principale alleato militare di Mosca, Israele è il principale partner degli Stati Uniti nella regione. Sappiamo che nelle ultime settimane il governo di Gerusalemme ha colpito almeno quattro volte obiettivi iraniani in Siria. L’Iran ha reagito al raid degli americani minacciando Israele. È dunque possibile che queste schermaglie militari fra Israele e Iran continuino.

Dalle incursioni si passerà allo scontro frontale?

C’è il rischio di un’escalation, perché le armi che gli iraniani stanno accatastando in Siria sono molto sofisticate, e includono un nuovo sistema di droni in grado di lanciare bombe. Il drone che Israele ha abbattuto poche settimane fa nei suoi cieli, sulla valle del Giordano, era proprio armato di bombe. Se l’Iran dovesse riuscire a sganciarle sulle città israeliane, penetrando le loro difese aeree, si aprirebbe una nuova fase di escalation regionale.

Questa settimana si celebra il settantenario dalla fondazione dello Stato ebraico. In questi ultimi mesi ci sono stati segnali di apertura fra Israele e l’Arabia Saudita, culla dell’Islam, che lasciano intendere una possibile svolta: l’apertura di un canale diplomatico diretto. Che giudizio dà di questi sviluppi?

Durante il recente viaggio negli Stati Uniti il principe ereditario saudita Mohamed Bin Salman ha sostenuto che “gli israeliani hanno diritto ad avere la loro terra”. Questa è la maggiore apertura di Riad nei confronti dello Stato ebraico da quando Trump è diventato presidente. L’altro segnale inviato da Riad a Gerusalemme è stata l’apertura dei cieli alla compagnia aerea Air India per i voli diretti da New Delhi e Bombay a Tel Aviv.

Perché i sauditi hanno deciso di mettere da parte la storica avversione contro Israele?

La convergenza strategica fra Israele e Arabia Saudita è dovuta alla comune minaccia iraniana. Attorno a questa convergenza l’amministrazione Trump sta creando le premesse per un piano di risoluzione del conflitto israelo-palestinese. È interessante notare a riguardo come l’Arabia Saudita abbia guidato gran parte dei Paesi sunniti verso una reazione cauta alla decisione di Washington di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele.

In una lettera al Corriere della Sera Silvio Berlusconi ha auspicato un intervento dei caschi blu dell’Onu in Siria sulla scia di quanto fatto in Libano anni fa. Secondo lei questa può essere una soluzione?

La dichiarazione di Silvio Berlusconi ha molto a che vedere con il dibattito politico in corso in Italia per la formazione di un governo ma è molto difficile da realizzare, perché all’Onu c’è una situazione di stallo sulla Siria dovuta ai veti incrociati del Consiglio di Sicurezza.

Se Berlusconi ribadisce l’appartenenza italiana all’Alleanza Atlantica, Matteo Salvini critica aspramente l’intervento degli alleati in Siria e accredita la versione del Cremlino. Queste sue esternazioni preoccupano gli americani?

Le dichiarazioni di Matteo Salvini sui legami con la Russia e la sua scelta di sposare le posizioni del Cremlino sulla crisi siriana sono destinate ad aumentare le preoccupazioni a Washington. Le elezioni del 4 marzo sono state uno spartiacque, perché hanno visto la vittoria di due partiti, la Lega e i Cinque Stelle, che non appartengono alle tradizionali famiglie politiche europee, cioè i popolari e i socialisti. C’è un grande interrogativo fra gli alleati americani e europei su quella che sarà la linea in politica estera e di sicurezza di queste due forzese dovessero arrivare al governo.

La presenza di un partito come Forza Italia, seppur minoritaria, in un governo Lega-M5S può essere una garanzia agli occhi dell’alleato statunitense?

Non c’è dubbio che Forza Italia e il Partito Democratico dal 1994 in poi hanno espresso in maniera alterna una politica estera e di sicurezza che è rientrata nel quadro delle alleanze tradizionali italiane, cioè l’Unione Europea e la Nato. Hanno assicurato una continuità che ha rafforzato il ruolo internazionale del nostro Paese. Queste due forze politiche però hanno perso le elezioni del 4 marzo. L’interrogativo da porsi è dunque se i partiti usciti vincitori dalle urne rinnoveranno la fedeltà alle alleanze di cui fa parte il nostro Paese sin dalla nascita della Repubblica nel 1946.

È ancora convinto che l’Italia abbia bisogno di una donna premier per uscire dallo stallo?

Credo di si. Sarebbe una risposta alla richiesta di grande rinnovamento della politica uscita dalle urne, dove oltre il 50% degli italiani ha votato contro i partiti tradizionali, e un modo per superare i veti incrociati che indeboliscono i partiti vincitori. Le donne sono il 51% dei cittadini, sono state al governo nelle grandi democrazie, dalla Gran Bretagna alla Germania, dalla Corea del Sud alla Francia, da Israele all’India, ma non nel nostro Paese, e oggi ve ne sono di valide e competenti in tutti i nostri schieramenti politici.

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