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L’alleanza tra Mosca e Riad in nome del petrolio

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Come anticipato dagli osservatori, tra gli incontri chiave del Forum economico di San Pietroburgo c’è stato quello tra i ministri  dell’Energia di Russia e Arabia Saudita, Alexander NovakKhalid al-Falih. I due godono di ampia libertà d’azione negli esecutivi di cui sono membri, e sono stati confermati nei loro ruoli chiave in due paesi che hanno una forte dipendenza dal petrolio; simboli del gruppo Opec, i sauditi, e dei produttori fuori dall’organizzazione, i russi.

Quello che è uscito dal faccia a faccia è che Mosca e Riad sono pronti ad allentare, “in modo graduale” ha detto Novak, i tagli alla produzione – decisi da loro stessi un paio di anni fa – per calmare le preoccupazioni dei consumatori in merito all’adeguatezza delle forniture. Si parla di un milione di barili in più al giorno, ma la decisione finale su numeri e tempi sarà presa a Vienna, dove i ministri dei paesi produttori Opec e non-Opec si vedranno per un vertice di due giorni, il 22 e il 23 giugno.

I commenti sulla riunione tra russi e sauditi hanno subito riabbassato il valore del greggio di tre dollari, portandolo a 67 al barile e allontanando dalla realtà le previsioni di chi pensava a crescite incontrollate dei prezzi. “Non ci interessa un aumento senza fine del prezzo dell’energia e del petrolio”, ha detto ieri il presidente russo Vladimir Putin ai giornalisti presenti a San Pietroburgo, dove il Spief è diventato scenario di decisioni importanti: “Direi che siamo perfettamente soddisfatti con 60 dollari al barile”, ha spiegato, perché “tutto ciò che è al di sopra può portare a certi problemi per i consumatori, cosa che non va bene neanche ai produttori”.

Dopo mesi di rallentamento produttivo (concordati insieme alla Russia per alleggerire le scorte globali), con prezzi piuttosto bassi, in questo mese si è arrivati a toccare gli 80,5 dollari al barile per il greggio, un’impennata record dal 2014, quasi il venti per cento rispetto allo scorso anno (e considerare che nel 2016 era a 30 dollari), legata a varie contingenze tra cui la decisione trumpiana di tirar fuori gli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare con l’Iran – che aveva eliminato le sanzioni e riaperto il mercato iraniano, grande produttore di petrolio (e gas naturale).

L’Opec aveva già iniziato la discussione sull’allentamento dei tagli alla produzione a seguito di un tweet critico di Donald Trump, ha ammesso il segretario generale dell’organizzazione, Mohammad Barkindo. Trump il 20 aprile, mentre i funzionari dell’Opec erano in riunione nell’opulento hotel Ritz-Carlton a Jedda sulla costa saudita del Mar Rosso, aveva scritto che l’organizzazione stava “artificialmente” aumentando i prezzi del petrolio (uscite del genere sono particolari se abbinate al personaggio e allo spazio, Twitter, in cui avvengono, ma è noto che gli Stati Uniti in passato hanno fatto pressioni affinché l’Opec contribuisse ad abbassare i prezzi, così come l’organizzazione dei produttori ha giocato con il valore del bene).

Barkindo ha ammesso che quel tweet, letto durante la riunione, è stato una specie di doccia fredda; ma c’è di più. Venerdì, il ministro saudita Falih ha avuto un colloquio telefonica anche con Nur Bekri, amministratore della National Energy Administration (NEA) cinese (Bekri ha un ruolo al livello di un ministro dell’Energia), che ha chiesto anche a nome di Pechino, grande consumatore, l’aumento delle produzioni. Pochi giorni fa, Dharmendra Pradhan, il ministro indiano del Petrolio, ha detto di aver chiamato anche lui Al-Falih e di avergli “espresso la mia preoccupazione per l’aumento dei prezzi del greggio”.

Fino a pochi mesi fa, i produttori, e soprattutto l’Opec, non pensavano a un aumento delle produzioni: poi c’è stata la pressione pubblica di Trump a smuovere le aque: “Il tweet ha spostato i sauditi”, ha detto alla Bloomberg Bob McNally, fondatore della società di consulenza Rapidan Energy Group LLC a Washington ed ex funzionario della Casa Bianca con incarichi sul mondo del petrolio.

“Il messaggio è stato consegnato forte e chiaro all’Arabia Saudita”, ma dietro alla decisione di Riad potrebbe esserci anche l’uscita dal deal iraniano, il collasso produttivo del Venezuela, la rapida riduzione delle scorte, le lamentele degli acquirenti. Sommatoria di situazioni che hanno praticamente imposto all’organizzazione controllata dal regno di cambiare linea. Al-Falih ha detto che il suo paese ha condiviso “l’ansia” dei suoi clienti, per questo le produzioni aumenteranno.

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