Bruxelles ha ragione: deficit e debito pubblico vanno tenuti a bada, “flat tax e reddito di cittadinanza non possono coesistere”. Parola di Dominick Salvatore, professore emerito della Fordham University, uno degli economisti più celebri al mondo, autore di un libro di economia internazionale tradotto in 18 lingue e divenuto pilastro per chiunque approcci la materia. Metà abruzzese, metà piemontese, una vita intera sulle cattedre statunitensi, Salvatore ha concesso a Formiche.net un’intervista a margine del “Gruppo dei 20” riunitosi a Roma sotto la guida di Luigi Paganetto. “Se non ci fosse l’Europa, sarebbe il libero mercato a chiedere all’Italia di contenere il debito”, spiega ai nostri microfoni commentando i mugugni del vicepresidente della Commissione Ue Dombrovskis recapitati a Lega e Movimento Cinque Stelle. Un monito da ascoltare, se proviene da chi è abituato a chiaccherare con premi Nobel del calibro di Joseph Stiglitz, Edmund Phelps, Robert Shiller, Paul Krugman. “Cassandre”: così li soprannomina lui affettuosamente, giocando sull’eccessiva eco mediatica che accompagna l’ultimo sussulto di un Nobel. Con alcuni di questi, assieme a un migliaio di illustri economisti, ha appena firmato una lettera pubblica che avvisa Donald Trump dei rischi di una guerra dei dazi con l’Europa. “Non credo che si arriverà a tanto” rassicura lui, che conosce di persona il presidente: per pochi anni non ha incrociato un giovane Trump sui banchi della Fordham sul finire degli anni ’60, ma le loro strade si sono incrociate più tardi.
Professore, devo dire che sono rimasto stupito quando ho letto il suo nome nella lista degli economisti che hanno messo in guardia Trump da una nuova grande Depressione. Lei e Trump non eravate amici?
Di certo non prendiamo il caffè insieme (ride, ndr). Sono stato contattato più volte dalla sua amministrazione per un consiglio. Ma tanto i consigli per Trump valgono fino a un certo punto. Ha visto cosa ha fatto con Angela Merkel, Emmanuel Macron e Theresa May sull’Iran? Ha ascoltato tutti, e poi ha fatto di testa sua.
Perché ha firmato la lettera contro il protezionismo?
Devo dire che ero indeciso. Ho scelto di firmare la lettera perché noi economisti siamo sempre dalla parte del libero commercio. Ma forse non avrei dovuto firmare, perché in fondo Trump non gioca a fare il protezionista, non è così stupido. Il suo obiettivo è iniziare una campagna di sensibilizzazione per riequilibrare il gap che c’è fra le due sponde dell’Atlantico. Anche il Wto è a favore del commercio libero, eppure permette a nazioni che sono chiaramente svantaggiate di difendersi applicando sanzioni.
Nessuna Grande Depressione all’orizzonte?
Assolutamente no, il paragone è fuori luogo. All’epoca gli Stati Uniti di Hoover commisero un grave errore. Partirono da un surplus commerciale e imposero dazi altissimi che in parte aggravarono la depressione estendendola al resto del mondo. Si pensava che con quei dazi sulle importazioni, i più alti della storia americana, sarebbero tornati i posti di lavoro. Si sbagliavano: si arrivò a un punto in cui due terzi del commercio internazionale era evaporato.
C’è qualcosa per cui rimprovera Trump fino ad oggi?
Il suo errore più clamoroso è stato abbandonare il Trans Pacific Partnership (Tpp). Un accordo di libero scambio di dodici Stati che, non a caso, lasciava fuori la Cina. Avrebbero potuto dettare insieme le regole del gioco, accogliendo in un secondo momento anche Pechino, che però si sarebbe dovuta adeguare.
Lei ha lavorato dietro le quinte per evitare la rottura, giusto?
Io avevo il compito di spiegare che questo era un accordo utilissimo. Il Tpp poteva far nascere nel Pacifico un’alleanza politica, oltre che economica. Adesso invece gli Stati Uniti hanno lasciato campo libero alla Cina, che troppo spesso persegue i suoi interessi a scapito degli altri.
Adesso Trump vuole rientrare dalla finestra…
E giustamente gli Stati che ne fanno parte gli rispondono di no, non è più credibile. Hanno trattato per tre lunghi anni con Barack Obama, che peraltro non è sempre stato un alfiere del libero commercio. I democratici sono convinti assai più che i repubblicani che il libero scambio, non l’automazione, distrugga i posti di lavoro.
Intanto la Germania tuona contro Trump per le minacce di dazi sulle auto tedesche. Spirano venti di guerra (commerciale) con l’Europa?
Non credo. Trump è un businessman, ragiona pensando di avere davanti delle imprese private. Spara in alto, ma poi trova un accordo a metà strada. Detto questo, deve essere chiaro che la Germania non parla per l’Europa. Quando si tratta di fare i propri interessi a scapito dell’Europa non si fa alcun problema. Un terzo della crescita in Germania è dovuto alle spese di altri: se oggi ci fosse ancora il marco tedesco sarebbe apprezzato del 20-30%. La Germania chiede ai Paesi europei di ridurre il deficit. Ma dimentica che senza i Paesi con un deficit non avrebbe un surplus commerciale così grande.
Quanto ha da perdere l’Italia con una guerra di dazi con Washington?
Tanto. Già il ritiro di Trump dal trattato sul nucleare iraniano può costare all’Italia 30 miliardi di dollari. Se gli Stati Uniti imporranno nuovi dazi sui prodotti europei costringeranno Bruxelles a fare ritorsioni e per l’Italia può mettersi male. Però ho i miei dubbi che Trump voglia continuare a muso duro.
Cioè?
Fra ciò che Trump minaccia di fare e ciò che effettivamente fa c’è il mare. È pericoloso il modo in cui cerca di risolvere i problemi, sbaglia i modi, non la sostanza. L’unilateralismo non è mai la soluzione: gli Stati europei non possono essere considerati i vassalli di Washington.
Il vicepresidente della Commissione Ue Valdis Dombrovskis ha ammonito il governo italiano che verrà: bisogna ridurre debito pubblico e deficit. È così?
Ha ragione l’Europa. Il nascente governo può anche accusare Bruxelles di limitare il deficit e il debito pubblico italiano. Ma anche se l’Italia uscisse dall’Unione Europea dovrebbe rispettare quelle regole, perché sarebbe il mercato a imporgliele. Se il rapporto debito pubblico-Pil salisse a dismisura l’Italia sarebbe costretta a vendere titoli di Stato. Se il debito aumenta anche i tassi di interesse aumentano, i casi di Portogallo, Irlanda e Grecia dovrebbero averci insegnato qualcosa.
Cosa pensa del programma economico di Lega e Cinque Stelle?
Flat tax e reddito di cittadinanza non possono coesistere. La flat tax l’abbiamo inventata noi negli Stati Uniti, e non l’abbiamo mai usata. Lei crede che se fosse stato uno strumento utile non ne avremmo fatto uso? L’hanno utilizzata solo piccoli Paesi come l’Albania, nulla di paragonabile a uno Stato come l’Italia.
E il reddito di cittadinanza?
Anche questo è stato già sperimentato. Dalla Finlandia, ad esempio, che ha dovuto abbandonarlo. Non funzionava: chi aveva un reddito basso ha smesso di lavorare non appena ha ricevuto il sussidio.
Cosa dice invece dei piani che i due partiti hanno per il sistema pensionistico?
Io capisco che non si riesce a vivere con 800 euro al mese, ma bisogna fare i conti con la cruda verità. La pensione è stata creata in Italia per chi aveva 65 anni quando l’aspettativa media di vita era di 67. Io conosco persone che sono andate in pensione a 42 anni e adesso ne hanno più di settanta. Qualcuno deve pagare per questo, e fare debito pubblico non può essere la soluzione. Non vedo come si possa dare sussidi, ridurre le tasse e l’età pensionabile e al tempo stesso contenere il debito.