L’approvazione del bilancio, per una collettività, dovrebbe rappresentare la massima espressione delle sue scelte politiche collettive. Ogni anno, in ciascun paese con regole analoghe, il governo di turno deve verificare in Parlamento se vi sia un accordo sufficiente ad approvare le linee strategiche di spesa e di entrate, per dare legittimità democratica ad una scelta delegata al governo. In pratica, deve verificare che i rappresentanti dei cittadini si riconoscano effettivamente nelle scelte compiute in nome e per conto loro.
A livello di Unione Europea le cose però stanno in maniera leggermente diversa. Ogni sette anni, su proposta della Commissione, il Parlamento e il Consiglio dei Capi di Stato e di Governo (che è chiamato a pronunciarsi all’unanimità) devono accettare o emendare il Multiannual Financial Framework (Quadro Finanziario Pluriennale), il bilancio dell’Unione Europea.
La legittimità democratica di questo documento è controversa. Essa deriva solo in parte da una scelta dei loro rappresentanti direttamente eletti in seno all’Assemblea Parlamentare, dipendendo in maniera cruciale dall’esercizio del diritto di veto in seno al Consiglio. Questo metodo rafforza ovviamente la contrapposizione fra interessi nazionali, piuttosto che agevolare la formazione e il consolidamento di un’identità collettiva europea.
Entro il prossimo anno dovrà essere deciso il MFF per il periodo 2021-2027.
E le istituzioni europee (Parlamento e Commissione) si sono mosse recentemente per indicare quelle che sono a loro avviso le priorità per la formazione del nuovo bilancio.
Il Parlamento ha fatto una proposta ragionevole: per molti versi prudente, in parte ambiziosa. Per riassumere: portare il bilancio da meno dell’1% al 1,3% del PIL (oltre il 30% di aumento); potenziare la spesa per l’erogazione di beni pubblici europei, in particolare ricerca, innovazione, mobilità dei giovani; fare maggiore affidamento sulle risorse proprie, piuttosto che sui contributi nazionali; approvazione in Consiglio a maggioranza qualificata invece che all’unanimità; portare a far coincidere la durata del bilancio con quella della legislatura europea.
La Commissione ha proposto invece un compromesso al ribasso: bilancio al 1,13 del PIL (ma comprensivo dei fondi alla cooperazione, precedentemente esclusi); finanziamento di beni pubblici europei, ma solo una parte rispetto a quanto indicato da Macron ed a scapito dei fondi di coesione e della politica agricola; nessun accenno al voto all’unanimità (che quindi viene dato per scontato); la destinazione di una parte del fondo al sostegno delle misure strutturali per aumentare la convergenza dentro e fuori l’area dell’euro; una funzione di stabilizzazione degli investimenti con funzioni anticicliche (ma non è dato sapere se condizionale o automatica); maggiore uso delle risorse proprie rispetto ai contributi nazionali; lasciare inalterata l’attuale programmazione settennale proprio per evitare di impegnare le istituzioni per mesi interi sull’approvazione del bilancio, che le renderebbe inutilizzabili per altre politiche correnti.
Una proposta certamente realistica e tutto sommato che si muove nella giusta direzione; una proposta allo stesso tempo fortemente carente, con una velocità di cambiamento non coerente con quanto sarebbe necessario dato il sostegno sempre più debole alla Ue da parte dei propri cittadini, l’evoluzione del quadro internazionale, le sfide della sostenibilità, i nuovi assetti commerciali e militari mondiali, l’urgenza di farsi carico di uno sviluppo equilibrato di vaste parti del pianeta. E soprattutto non tiene conto della disponibilità della Francia a mettere in comune sei aree di policy, di fatto chiudendo la porta in faccia a Macron.
Una proposta, soprattutto, che dubito sia in grado di ribaltare la percezione di fallimento della Ue che ormai è entrata nell’opinione pubblica europea e che rischia di alimentare ulteriori rigurgiti nazionalisti.
Le prime reazioni a caldo, i Italia, sono state contrarie: molti si sono lamentati della diminuzione dei fondi di coesione (ma se in Italia già non riusciamo a spendere nemmeno quelli che ci spettano!), senza ricordare però che la (minima) diminuzione va a coprire, ad esempio, l’inserimento dei finanziamenti per la gestione dei flussi migratori (che dovrebbero interessare parecchio al nostro paese).
A mio avviso non è sulle scelte, legittime ed allo stesso tempo negoziabili, che dobbiamo criticare la proposta della Commissione. Ma perché è un bilancio che non consente di erogare beni pubblici europei in settori ed al livello che sarebbe necessario, costringendo i singoli Stati a provvedere, ognuno nei limiti delle proprie possibilità, disponibilità e condizioni di mercato. Il che non aiuta la formazione di una genuina identità europea ma rafforza semmai quelle nazionali, aumentando le divergenze fra i paesi.
In passato, l’Italia ha messo a disposizione del Parlamento Europeo il proprio diritto di veto (quando il PE non aveva la possibilità di emendare il testo), per minacciare la bocciatura del bilancio se non fosse stato ritenuto sensato dall’assemblea di Strasburgo. Oggi (che il Parlamento Europeo ha la possibilità di respingere o emendare il bilancio Ue e che difficilmente troverà una maggioranza disposta a dare battaglia) si potrebbe immaginare che l’Italia giochi il suo diritto di veto in fase negoziale, condizionando l’approvazione al fatto che vengano realizzate le necessarie riforme per il completamento dell’Unione Economica e Monetaria in una direzione meno orientata al rigore ed alla governance intergovernativa; che venga aumentato il bilancio per fornire beni pubblici europei come grandi infrastrutture, innovazione e ricerca, politiche energetiche, difesa dello stato sociale.
Sarebbe un ricatto. Ma in questa Unione Europea, i ricatti sono sanciti come forma standard di esercizio di voto collettivo (il potere di veto) ai massimi livelli… non sarebbe certo uno scandalo. Il punto è un altro. Per un’operazione politica così delicata servirebbe un governo. Audace, credibile e convinto della necessità di trasformare questa Ue intergovernativa ed inefficiente in una genuina democrazia sovranazionale.
Forse è meglio sperare nella Francia, per un’operazione di questo tipo.