La trasformazione digitale sta plasmando un nuovo mondo, nel quale i Paesi e i loro governi dovranno decidere se abbracciarne il cambiamento o subirlo, restando fuori dal mercato e perdendo la capacità di incidere sugli equilibri mondiali. Italia compresa.
A esserne convinto è Robert Atkinson, oggi presidente dell’Information Technology and Innovation Foundation (Itif), un think tank con sede a Washington che promuove policy sull’economia dell’innovazione. A lungo impegnato in realtà pubbliche come il Nist (un’agenzia del governo degli Stati Uniti che si occupa della gestione delle tecnologie), l’economista ha ricoperto nella sua carriera ruoli importanti nelle amministrazioni di George W. Bush e Barack Obama, diventando uno dei punti di riferimento per il settore tech. Nei giorni scorsi Atkinson era in Italia per promuovere il 2° Global Trade and Innovation Policy Alliance (GTIPA) Summit, assemblea di alcuni tra i migliori think tank del mondo organizzata in Italia in collaborazione con l’Istituto per la Competitività (I-Com) e Competere. Ecco che che cosa ha detto a Formiche.net.
Atkinson, che trend vede nell’economia dell’innovazione? E quali saranno i suoi effetti nel medio-lungo periodo?
In una frase ormai famosa, il fondatore di Netscape, Marc Andreessen disse che “il software sta mangiando il mondo”. Credo che nei prossimi vent’anni vedremo il mondo trasformato a livello digitale, in particolare le industrie, come mai accaduto in passato.
L’indiscusso punto di riferimento in questo settore è senz’altro la Silicon Valley. Dove sta andando il cuore dell’innovazione mondiale?
Se guardiamo la Silicon Valley oggi e la confrontiamo quella di quindici anni fa notiamo molte differenze. In primo luogo, le compagnie operanti nella Silicon valley si occupavano di informazione industriale, creando software, database e componenti hardware per questo tipi di attività. Oggi più della metà delle aziende della Silicon Valley si occupano di tutt’altro: trasporti, immobiliare, finanza, persino agricoltura.
Che effetti avrà tutto ciò?
Credo che nei prossimi quindici anni, a meno che le nazioni non oppongano una strenua resistenza, vedremo un progresso digitale importante specialmente per quanto riguarda le industrie. Le banche ad esempio sono uno strumento incredibilmente inefficiente ad oggi, anche se la situazione sta cambiando. Io dovrei avere la possibilità di comunicare e utilizzare gli strumenti finanziari con il mio smartphone da qualsiasi Paese del mondo e senza commissioni. Questo è il pianeta in cui probabilmente vivremo e si tratta di un cambiamento inevitabile. Vedremo numerosi cambiamenti ma saranno assimilabili senza troppe difficoltà.
Ci saranno Paesi che proveranno a resistere a questo cambiamento? Penso soprattutto al dibattito crescente sugli effetti negativi dell’automazione e dell’intelligenza artificiale sul mondo del lavoro. E se sì, con quali conseguenze?
Sicuramente sì, molti stati proveranno a resistere, ma verranno lasciati indietro. Il punto è che non si può davvero contrastare il progresso digitale se tutto il mondo si muove in questa direzione. Durante l’era della rivoluzione dell’elettricità non si poteva semplicemente evitare di utilizzarla, alla fine chiunque si è dovuto convertire all’energia elettrica. Ogni paese dovrebbe abbracciare la digitalizzazione o rischia nel breve periodo di ritrovarsi fuori dal mercato.
Come vede posizionata l’Italia in questo contesto?
A livello lavorativo la sfida, specialmente nel caso italiano, consiste nel diventare più competitivi a livello di produzione, dove Roma è ancora parecchio dietro a nazioni come il Giappone o la Germania. Uno stato può rifiutare questa rivoluzione e restare indietro o applicare il modello svedese: noi non temiamo le nuove tecnologie, ma le vecchie, e non vogliamo che le nostre aziende continuino ad utilizzare tecnologie obsolete, in quanto l’intero Paese perderebbe il proprio potere competitivo. Credo che sia questo a mancare oggi in Italia.
Quali azioni concrete consiglia di realizzare?
Noi abbracciamo i cambiamenti e le innovazioni. Allo stesso modo anche l’istruzione in ambito digitale e tecnologico dovrebbe essere migliorata. Nessun Paese può avere successo oggi se la sua popolazione non ha un’educazione tecnologica. Qualsiasi lavoro o carriera, giornalismo compreso, dovrebbe essere accompagnata da un’educazione in ambito digitale. Le scuole di tutto il mondo, anche negli Stati Uniti, non sono ancora pienamente impegnate in questo senso.
Cosa ne pensa, invece, del dibattito sull’uso dei social media, soprattutto in relazione alle sue ripercussioni sui processi democratici? Nel mondo è ancora vivo il dibattito sul caso Cambridge Analytica.
Cambridge Analytica e la società che ha raccolto i dati degli utenti hanno violato i termini del contratto. Esistono degli incidenti di percorso e le leggi vengono continuamente e attivamente infrante. Le leggi non costringono le persone a non violarle. L’idea che con il Gdpr tutto questo non sarebbe accaduto è dunque sbagliata. Per quanto riguarda la questione delle elezioni, invece, penso che queste tecnologie siano semplicemente nuove, e non siamo ancora completamente preparati ai problemi che possono creare. Facebook non ha la giusta motivazione per sistemare le problematiche legate alla democrazia digitale nonostante ne abbia le capacità tecniche. Non ci sono più confini perché la velocità della comunicazione attraverso i social network ha permesso a persone da ogni parte del mondo di mantenere attivi contatti di un certo livello. Alcune agenzie di informazione russa hanno influenzato le elezioni americane? È possibile, ma la tecnologia è questo: rischi ma anche opportunità. La tecnologia non è un male di per sé, ma come ogni rivoluzione presenta anche delle sfide.
Think tank come il suo o, più recentemente, il presidente e chief legal officer di Microsoft, Brad Smith, hanno lanciato l’idea di una nuova convenzione di Ginevra per impegnare gli Stati e proteggere i cittadini dai pericoli dello spazio cibernetico. Crede che, nonostante le resistenze, sarà inevitabile in futuro giungere a un diritto internazionale che possa regolare tutti gli aspetti della rivoluzione digitale?
Credo che una regolazione si possa immaginare in questo senso solo se è davvero accettata da tutti, non possono esserci due organi a regolare questa materia, proprio perché internet è una questione globale, non nazionale. Chiaramente ogni nazione ha valori differenti, ad esempio per l’Europa c’è più attenzione verso la privacy rispetto agli Stati Uniti, dove sembra avere meno rilevanza. Ci sono poi nazioni che non vogliono che la libertà concessa da internet si applichi a tutti. Ad esempio in Arabia Saudita non è permessa la pornografia, mentre gli Usa non potrebbero mai eliminarla. Ogni nazione ha la propria policy che viene applicata ai propri confini e va bene così.
Che accordo è possibile raggiungere, invece, su temi come la censura dove c’è un abisso a separare Occidente e altri Paesi?
Credo che se un Paese vuole bloccare la possibilità di accedere a internet o a determinati contenuti, come in Thailandia, dove non ci si può prendere gioco del re, il governo debba poter bloccare l’accesso a questi contenuti nel proprio Stato, ma non costringere le altre nazioni a fare lo stesso. Quello che dobbiamo fare è renderci conto che per risolvere la problematica della disparità nelle libertà di accesso ad internet non si può pretendere una regola comune per tutti. Così come per i diritti umani, non sono naturalmente d’accordo con le violazioni che avvengono, ad esempio, in Cina. Ma è la loro nazione e per quanto si possa fare pressione perché le cose cambino, alla fine dobbiamo rispettare la volontà di un Paese diverso dal nostra. Credo che si debba cooperare maggiormente a livello globale, invece, nell’ambito della cyber sicurezza e trovare un accordo su tematiche delicate come la pedopornografia – che fortunatamente ogni nazione considera illegale – il traffico di droga e quello di esseri umani. Possiamo e dobbiamo lavorare tutti insieme affinché questi crimini non si servano di internet.