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Trump potrebbe limitare l’accesso dei cinesi nelle università Usa per ragioni di sicurezza nazionale

L’amministrazione Trump starebbe pensando di limitare il numero dei ricercatori cinesi che lavorano nelle università americane e nei centri di studi avanzati (privati) su determinate tecnologie, come l’intelligenza artificiale, i microchip avanzati, le auto elettriche, ossia quelle che vengono definite “cutting-edge technologies“, termine che indica le tecnologice ai confini dell’attuale conoscenza – quelle che per altro sono oggetto del grande piano con cui Pechino vorrebbe diventarne nel prossimo futuro sviluppatore e produttore diretto, il “Made in China 2025”.

Il New York Times, che riporta la notizia grazie a “persone che hanno famigliarità col dossier”, cita il caso di un “invisibility cloak“, una sorta di coperta invisibile, che permetterebbe, per esempio, a jet ordinari di nascondersi completamente ai radar: la tecnologia è in studio in un centro di ricerca della Duke University da anni. Nel 2008 un ricercatore cinese attirò le attenzioni del suo supervisore, che avvisò l’Fbi: c’era più di un sospetto contrabbandasse in patria le informazioni di quello su cui stava lavorando. Il controspionaggio iniziò a pedinarlo, lo indagò, ma ne uscì pulito. L’uomo però tornò in Cina anni dopo, e lì aprì una società che si occupava proprio di materiali per l’invisibilità, diventando milionario grazie agli investimenti statali (i suoi laboratori sono stati anche visitati dal presidente Xi Jinping in persona). Ad aprile Pechino ha fatto sapere di aver raggiunto ottimi sviluppi su questa stessa tecnologia (magari è un caso).

L’idea di Washington, adesso che la Cina sta diventando sempre più forte nell’ambito dello sviluppo e produzione di tecnologie all’avanguardia, è limitare notevolmente l’accesso agli studenti e ai lavoratori cinesi soprattutto in quelli che vengono considerati centri di studio per sistemi di interesse militare o di intelligence – settori che sono già soggetti a procedure di vetting accurate, ma il problema che solleva l’amministrazione Trump è quello legato alla fase iniziale di alcuni progetti, quando il lavoro non è ancora classificato, ma gli studi aprono piste per lo sviluppo.

Ad essere colpiti, per proteggere la sicurezza nazionale, potrebbero essere i collaboratori con visti di carattere temporaneo, non certo le carte verdi (permanenti) o i rifugiati politici e i nazionalizzati; tra i potenziali colpiti studenti e dottorandi. Per avere un numero: oltre un milione di studenti stranieri bazzica ogni anno le università americane, un terzo di questi sono cinesi (e molti iscritti in corsi di studi di ambito scientifico, informatico o ingegneristico), per questo la possibile mossa dell’amministrazione è temuta e considerata come un boomerang che potrebbe ledere la forza americana nel mondo della ricerca e sviluppo.

Il confronto tra cinesi e americani si gioca a suon di dazi commerciali, ma è da tempo chiaro che l’obbiettivo della presidenza Trump è non solo abbassare il deficit commerciale tra i due paesi, ma anche limitare le attività cinesi nell’ambito dello spionaggio aziendale, tutelare la proprietà intellettuale, bloccare i canali con cui Pechino muove la sua intelligence a ventaglio, fatta di piccoli agenti a larga diffusione – che raccolgono piccoli tasselli, poi catalogati per costruire il quadro generale.

A inizio aprile il dissidente cinese Guo Wengui ha raccontato al Washington Free Bacon che negli Stati Uniti sono operativi circa 25mila agenti segreti cinesi e 15mila reclutatori, per un investimento che sfiora i quattro miliardi di dollari all’anno. Non è chiaro quanti questi dati siano definitivi, ma, sebbene ultimamente oscurata dall’interesse nei confronti dell’inasprirsi dello scontro con la Russia e dall’attenzione mediatica sul Russiagate, da anni le intelligence americane denunciano la situazione (e proposte simili a quelle trumpiane, anche se molto più limitate, risalgono al 2016, epoca Obama).

Sempre a inizio aprile, Michelle Van Cleave, una ex direttrice della National Counter-intelligence sotto la presidenza Bush e senior fellow alla George Washington University, ha detto in audizione alla Commissione Scienze, Spazio e Tecnologie della Camera americana, che il mondo delle università è “il paradiso delle spie”, basti pensare la quantità di richieste di accesso a settori top secret che ogni anno arriva dal mondo accademico al dipartimento della Difesa.

L’indiscrezione del Nyt renderà notevolmente più complicato il viaggio che il segretario al Tesoro, Steve Mnuchin, farà in Cina questa settimana con l’obiettivo di intavolare discussioni sulle beghe commerciali che il presidente Donald Trump – che con il suo omologo cinese ha da sempre un rapporto bifase, a volte lo indica come uno statista amico, altre volte come uno scorretto nemico – intendere risolvere come primo obiettivo della sua politica estera America First.


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