E così, sembra che finalmente avremo un governo. Indipendentemente da quello che se ne pensa dell’accordo Lega-M5S, mi pare che alcune considerazioni siano inevitabili.
La prima è che, a quest’accordo, non c’erano alternative politiche. Una volta evaporata l’ipotesi di un dialogo con il Pd, il M5S non poteva che guardare al centrodestra; e, all’interno della coalizione, il partito col quale la distanza nei programmi era minore era la Lega.
La seconda considerazione è che andare alle elezioni, in presenza di una legge elettorale come l’attuale, giocando sulla speranza che gli elettori si sarebbero polarizzati su centrodestra o M5S, esponeva il paese al rischio di un ulteriore ritardo nella formazione di una maggioranza di governo, con effetti negativi in termini di mancati provvedimenti economici e di assenza dai negoziati politici di ridefinizione degli equilibri europei, il cui esito è cruciale per il nostro paese.
Il terzo punto è una preoccupazione: in un accordo col Pd il M5S sarebbe stato costretto a rivedere nella sostanza la sua posizione sull’integrazione europea, magari anche giocando all’interno dell’alleanza il ruolo (fondamentale) del poliziotto cattivo (più coerente con la sua storia ed il suo elettorato) per rendere più aggressiva la posizione del governo italiano nei confronti delle rivendicazioni per una maggiore legittimità democratica della Ue, la fine dell’intergovernamentalismo, etc; in un accordo con la Lega, il M5S è costretto a giocare il ruolo del poliziotto buono (ma meno credibile), ma allo stesso tempo cercando un compromesso continuo con una Lega che è apertamente per un modello nazional-sovranista in Europa (stile Visegrad), quindi con una linea politica in sostanza intergovernativa e confederale.
Dal punto di vista economico-finanziario, conciliare la flat tax (anche se un po’ meno flat di quanto promesso, visto che si profilano due aliquote) col reddito di inclusione (o di cittadinanza, chiamatelo come preferite, anche se sono cose profondamente diverse… ma dovremo aspettare di capire quale sarà la proposta concreta per dargli un nome meno fantasioso) appare un compito impossibile. A maggior ragione se si vagheggia anche di abolire la Legge Fornero.
Naturalmente, il problema nasce solo se si intendono rispettare gli impegni alla riduzione del debito pubblico, come ci chiedono le clausole del Patto di Stabilità e Crescita, il Fiscal Compact ormai presente nella nostra costituzione, e come in fondo suggerisce il buon senso, per evitare una punizione dei mercati ben più severa di quella dei burocrati di Bruxelles, con l’aumento dello spread, l’innalzamento del costo dei servizio del debito, e in sostanza l’ulteriore peggioramento dei conti pubblici (con la riduzione ulteriore degli spazi di manovra per aumentare la spesa). Insomma, se non mettiamo in discussione l’appartenenza all’euro ed all’Unione Europea (ma magari ci battiamo per cambiare radicalmente gli aspetti ancora inefficienti, intergovernativi e rigoristi della sua governance economica e politica).
Certo, per il primo anno si può fare affidamento su misure una tantum, tipo condono fiscale/edilizio. Ma le misure una tantum, per definizione, non possono essere reiterate. La speranza dei proponenti è che l’aumento dei consumi conseguente alla diminuzione del carico fiscale ed all’iniezione di liquidità per le fasce senza (o a basso) reddito, induca un aumento del reddito tale da più che compensare la diminuzione delle aliquote, andando a coprire il fabbisogno finanziario e perfino a ripianare progressivamente il debito pubblico.
In economia, contano soprattutto le aspettative. E non è possibile prevedere se le aspettative che questo governo sarà in grado di generare avranno gli effetti positivi sperati.
Il vero problema, nel lungo periodo, è naturalmente quello di far ripartire investimenti (che non a caso dipendono in maniera cruciale dalle aspettative di imprenditori e consumatori) ed occupazione.
Una partita complessa, che certo richiede di essere giocata sul piano nazionale, con la lotta alla corruzione, la semplificazione e la maggiore efficienza della Pubblica Amministrazione, il finanziamento della formazione di capitale umano e sociale (ricerca, innovazione, formazione), l’adeguamento infrastrutturale soprattutto in termini di tecnologie digitali (banda larga, etc). Ma anche sul piano europeo, dove è prima di tutto necessario partecipare attivamente ai tavoli di discussione già oggi aperti sul completamento dell’unione economica e monetaria, per dare alla governance economica dell’area dell’euro una maggiore efficacia e solidarietà; e nel cui ambito si possono internalizzare le esternalità generate dagli investimenti e dall’espansione della domanda. Ed a livello mondiale, per ostacolare il rigurgito protezionista che, se avvantaggia qualcuno, svantaggia tutti i cittadini-consumatori e che rischia di far degenerare conflitti commerciali in conflitti armati.
Preoccupa soprattutto la strategia europea, che pare profilarsi all’orizzonte come l’esportazione a Bruxelles del “celodurismo” leghista. Si spererebbe insomma di indurre una maggiore legittimità democratica, una maggiore condivisione delle decisioni e dei rischi, un accrescimento degli investimenti collettivi europei (tutti elementi indispensabili per la ripresa dell’economia italiana) inneggiando alla minaccia di un ritorno alla sovranità nazionale (improbabile), all’uscita dall’euro (suicida), di sbattere la porta dell’Unione Europea (ridicolo), ed altre amenità simili. Una strategia rischiosa, che forse può anche avere qualche chance di funzionare, se condotta con intelligenza ed oculata gestione della comunicazione ma al tempo stesso delle negoziazioni e delle alleanze… Sempre che non ci prendano davvero sul serio e ci aprano la porta, pregandoci di accomodarci.