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Usa, potenza nazionale o superpotenza globale? La versione di Stephen Brooks

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America First o America alone? Il motto che ha trascinato Donald Trump alla Casa Bianca deve ancora essere decodificato dai politologi americani a più di un anno dal giuramento a Washington D.C. Il presidente ha deluso chi pensava di poterlo etichettare con qualche vetusta categoria accademica o politica: estremista o moderato, repubblicano o democratico, isolazionista o interventista? Semplicemente Trump. Nei think tank e nelle università a stelle e strisce c’è chi spera ancora che al grido di America First il tycoon voglia fare un passo indietro dall’agone internazionale, mettere davanti a tutto, first, il benessere economico e la sicurezza del Paese, tagliare con l’accetta le alleanze militari troppo rischiose e riportare i propri soldati a casa. Sono gli “isolazionisti”, e non sono nati con Trump: da anni autorevoli studiosi del calibro di Cristopher Layne e Barry Posen invitano alla prudenza il governo americano, mettendo in guardia dai rischi che comporta una leadership forte nel mondo.

Altri auspicano che il motto trumpiano si concretizzi in un consolidamento del ruolo degli Stati Uniti come superpotenza nel mondo, garante delle istituzioni multilaterali e degli equilibri regionali e internazionali, vicina agli alleati storici e pronta a difenderli dal nemico ove ve ne fosse bisogno. Uno dei più illustri è Stephen G. Brooks, cresciuto nelle aule di Yale, oggi docente di politica internazionale nell’antico e prestigioso Dartmouth College (New Hampshire), che questo giovedì ha tenuto all’Istituto Affari Internazionali (Iai) di Roma un incontro per presentare la sua ultima fatica, “America Abroad. The United States’ Global Role in the 21st Century”. Un libro scritto a quattro mani con il collega di sempre William Wohlforth per soppesare la sfida che il ventunesimo secolo, con il ritorno alla competizione internazionale per il potere e l’emergere di nuove superpotenze economiche (la Cina in primis) pone ai policymakers di Capitol Hill.

“Siamo rimasti in pochi, meno del 5% degli studiosi americani di Relazioni Internazionali, ad essere convinti che gli Stati Uniti non dovrebbero abdicare al loro ruolo di superpotenza” ammette sconsolato Brooks davanti alla platea di giovani studenti e rodati diplomatici dello Iai. Dall’altra parte dell’oceano, nell’olimpo dei più influenti studiosi di Relazioni Internazionali, quelli che hanno carta bianca per scrivere su riviste di fama mondiale come Foreign Affairs e Foreign Policy, solo una manciata chiede a Trump di non abbandonare il posto che spetta agli States nel mondo: Brooks, Wohlforth, il teorico del soft power Joseph Nye, John Ikenberry, Stephen Walt, si contano su una mano. Non solo gli elettori più appassionati del tycoon dunque chiedono di spendere meno all’estero e di più a casa, anche i patinati think thank di Washington si stanno rassegnando all’idea che uno step back sia necessario. Eppure i senatori e congressmen americani, repubblicani o democratici cambia poco, continuano a chiedere a gran voce al presidente di investire nella Nato, di dialogare con l’Europa, di tenere a bada l’aggressività della Russia e non lasciare impunite le scorrettezze made in China.

“È il solito abisso che separa il mondo dell’accademia da quello della politica” commenta Brooks, “non capisco perché vada avanti questo dibattito”. Lui non ha dubbi: l’America non è in declino, e non ha motivo di affrettarlo sua sponte. Non esistono d’altronde sfidanti all’altezza del compito. “Bisogna sfatare alcuni falsi miti sulle nuove superpotenze che starebbero sfidando il ruolo degli Stati Uniti”, dice. “Prendiamo la Cina. Un Paese che sta crescendo, certo, ma a un tasso molto inferiore rispetto ad altri Paesi che sono cresciuti in passato, come la Germania di inizio ‘900. La Cina è una sfida per noi su scala regionale, non globale. È ancora lontana anni luce nel settore dell’alta tecnologia civile e militare, e il suo esercito non può competere con quello statunitense”.  Anche Mosca non passa il test del confronto con Washington: “Gli Stati Uniti dispongono di risorse economiche e militari che non sono paragonabili con nessun altro Stato, e sarà così nei prossimi decenni” puntualizza il politologo. “La Russia? La sua economia è a malapena comparabile a quella di San Francisco, Boston e Los Angeles messe insieme. Inoltre paga il prezzo di un pesante declino demografico, e se è vero che può contare su significative risorse militari, è anche vero che per gran parte si tratta ancora delle riserve della Guerra Fredda”.

C’è quindi più di una ragione per continuare a investire risorse per sostenere il dipartimento di Stato, la Nato, il sistema di istituzioni multilaterali sorto all’indomani della Seconda Guerra Mondiale. “Un impegno prolungato degli Stati Uniti sullo scenario internazionale beneficia la sicurezza degli alleati ma anche dei cittadini americani, tiene a bada gli avversari, garantisce che i Paesi alleati non cambino sponda” spiega il professore. Ma limitarsi alla retorica del “superpoliziotto” sarebbe riduttivo. Ci sono altri vantaggi, oltre la sicurezza, per cui il gioco vale la candela: “Gli scettici si focalizzano troppo sui rischi per la sicurezza, e troppo poco sugli enormi benefici che comporta avere il sistema delle istituzioni economiche internazionali dalla propria parte. Trump si concentra solo sui deficit commerciali, dimenticando quanto sia importante per gli Stati Uniti che il dollaro sia la valuta di riserva nel mondo, o che il Fondo Monetario Internazionale ascolti le richieste di Washington”. Infine, conclude Brooks, scegliere la via isolazionista può rivelarsi “un esperimento molto rischioso” e alla Casa Bianca potrebbero pentirsene molto presto.

Quale sarà il retaggio dell’amministrazione Trump? Difficile a dirsi. Rottura e continuità in politica estera si sono alternati quotidianamente da quando il tycoon è stato eletto presidente. Brooks rimane convinto che Trump non sia assimilabile a nessuno dei predecessori. “Bush figlio ad esempio ha scelto un approccio unilaterale su temi di sicurezza come l’Iraq, ma non ha messo in dubbio istituzioni come il Wto, la Nato o le Nazioni Unite. La sfida di Trump all’ordine costituito è più profonda, e quindi più pericolosa”. La cesura con il passato emerge soprattutto nei rapporti diplomatici con l’Unione Europea. Dal 20 gennaio 2017, quando con il giuramento di Trump l’ex ambasciatore Anthony Luzzatto Gardner ha consegnato le dimissioni, nell’ambasciata americana a Bruxelles c’è un posto vacante. “Non necessariamente questo significa che non ci siano rapporti diplomatici attivi” spiega Brooks a Formiche.net a margine dell’incontro, “anzi, interlocuire con Bruxelles con un funzionario pubblico permanente può essere meno destabilizzante rispetto alla nomina di un ambasciatore. Trump guarda all’Europa soprattutto con la lente della Nato, ma tiene in poca considerazione l’Unione Europea”.

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