Nei prossimi giorni giorni passa dall’Italia John Bolton, l’ex ambasciatore americano all’Onu, falco repubblicano, che il presidente Donald Trump ha nominato a capo del Consiglio di sicurezza nazionale. Roma è una tappa intermedia di un suo spostamento ancora più a est. Prima passerà a Londra, poi in Italia, e infine arriverà a Mosca, dove probabilmente vedrà Vladimir Putin o alti membri del suo entourage per iniziare a preparare un incontro tra la Casa Bianca e il capo del Cremlino.
Dell’incontro tra Putin e Trump si sa qualcosa di più concreto dal 1 giugno, quando il Wall Street Journal ne ha parlato in un primo articolo (poi sono usciti i commenti russi: “Siamo pronti per i contatti” ha detto il ministro degli Esteri, “c’è un viaggio imminente” ha aggiunto il portavoce del Cremlino: Bolton intavolerà le carte, con una data prevista a metà a luglio, forse a Vienna, dopo il vertice Nato dell’11-12 a Bruxelles; nel frattempo il 4 luglio un corteo di senatori sfilerà all’ambasciata americana in Russia per festeggiare lì l’Indipendenza).
Invece della visita romana per il momento non si sa granché. Eppure, in questa fase ancora in corso d’uscita e contraccolpo dal G7 e di assestamento del nuovo governo italiano, i rapporti tra Roma e Washington sembrano essere ottimi. E la presenza nella capitale italiana di uno dei più intimi consiglieri del presidente americano che definisce “fantastico” il neo-premier italiano Giuseppe Conte è piuttosto interessante.
Bolton, che negli ultimi passaggi diplomatici sulla Corea del Nord è stato messo in panchina (il consigliere ha visioni piuttosto drastiche, preferirebbe risolvere il dossier con le bombe piuttosto che intavolare un dialogo), incarna comunque alla perfezione l’idea trumpiana.
E non è di certo un caso che, prima di andare a Mosca, il consigliere faccia tappa in queste due capitali europee. Partiamo larghi: a Londra gli Stati Uniti trovano il partner delle “special relations” di era-Churchill che in questo momento ha una postura severissima nei confronti della Russia. Il caso Skripal (la spia russa avvelenata, secondo Londra dai servizi segreti del Cremlino, su suolo inglese) è stato uno sfregio che il Regno Unito ha fatto in modo di punire con una misura diplomatica durissima: l’espulsione di diplomatici, a cui hanno aderito molti alleati occidentali, per primi gli americani.
Cercare contatti con la Russia senza consultarsi con gli inglesi sarebbe quanto meno indelicato: poi c’è Roma. Il nuovo governo gialloverde ha mostrato aperture nei confronti di Mosca e di Putin, c’è la Lega che ha un accordo politico di cooperazione con Russia Unita, il partito putiniano; c’è il M5S con alcuni alti esponenti (uno di questi Manlio Di Stefano, sottosegretario agli Esteri) che hanno ottimi contatti russi; c’è il premier Conte, che al G7 in cui Trump era praticamente isolato ha allungato la mano sulla necessità di reintrodurre la Russia nel sistema di dialogo multilaterale (come proposto da Trump stesso).
Sostanzialmente però non si dovrebbe pensare a un allineamento verso Mosca, anzi. Il governo americano non ha link – almeno dal punto di vista esplicito – come quello italiano con la Russia. Bolton invece potrebbe trasmettere agli alleati italiani la linea che il suo paese e il suo presidente stanno tenendo coi russi. Washington, di fatto, gioca un’azione sdoppiata: da una parte troviamo Trump, che vuole dialogo, faccia a faccia, possibilità di trattare, con Putin (visioni perfettamente inquadrabili in quel che si è capito finora della sua dottrina: l’incessante ricerca di deal America First); dall’altra le misure toste prese dell’amministrazione, le sanzioni, le mosse ad esclusione, la linea severa insomma.
Lo stesso potrebbe toccare ad altri dossier: Bolton, per esempio, è un acerrimo nemico dell’accordo sul nucleare con l’Iran, da cui Trump è uscito proprio nel momento in cui l’ex ambasciatore è diventato capo del Nationa security council (non è un caso questa sovrapposizione temporale). L’Italia invece segue, almeno per ora, la linea europea: l’intesa con gli ayatollah non è perfetta, anzi, ma è un modo per garantirsi un minimo di cooperazione da Teheran e piazzare qualche interesse in Iran (sintesi). In realtà su questo dossier Roma non ha una posizione esplicita, e chissà che il consigliere trumpiano non abbia anche il compito di sondare il terreno su possibili decisioni future italiane. L’Ue ha come ambizione quella di tenere in piedi il deal con l’Iran Trump-o-non-Trump, mentre il presidente americano vorrebbe vedere proprio quell’intesa sfasciarsi.
È probabile che, vista la composizione del governo italiano, Trump senta con Roma una buona empatia: i due paesi in questo momento hanno visioni simili su grandi tematiche come l’immigrazione, per esempio, o sulla necessità di recuperare sovranità nazionale contro il multilateralismo. Le posizioni di forza sono ovviamente sbilanciate a favore americana, e su questo Trump potrebbe giocare per accodarsi Roma, unico dei membri europei del G7 che non è sul piede di guerra contro gli Usa.