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Dieci giorni da ministro. La rivoluzione di Salvini tra molti annunci e la dura realtà

Dal 1° giugno, giorno del giuramento del governo Conte, il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, ha incessantemente fatto dichiarazioni sull’immigrazione in ogni occasione pubblica e sui social network mettendo tanta carne al fuoco che si può sintetizzare così: alcune cose sono condivisibili, altre irrealizzabili, altre ancora poco comprensibili. Di sicuro ha dichiarato guerra alle ong e all’isola di Malta.

IL SISTEMA DI ACCOGLIENZA

“Per i clandestini è finita la pacchia, devono fare le valigie, con calma ma se ne devono andare”. Era il 2 giugno, festa della Repubblica, e al netto del linguaggio fin troppo schietto, la larga maggioranza degli italiani (a prescindere dal partito che ha votato) chiede da anni che l’immigrato irregolare venga rimpatriato. Su come gestirli mentre sono in Italia, Salvini ha idee diverse dal suo predecessore Marco Minniti. Quest’ultimo ha provato a far passare l’idea dell’accoglienza diffusa, puntando a chiudere i centri di accoglienza con migliaia di persone spostandole in tutta Italia. Allo stesso tempo, ha previsto i Cpr (Centri permanenti per il rimpatrio) da 200 posti che avrebbero dovuto essere aperti uno per regione. Purtroppo, circa il 60 per cento dei Comuni non ha accettato gli immigrati e 16 regioni su 20 hanno rifiutato i Cpr: oggi sono 5 a Milano, Torino, Bari, Palermo e Caltanissetta. L’italiano medio la pensa così: dovete mandare via gli immigrati, ma intanto non dovete metterli vicino a casa mia.

CENTRI CHIUSI

L’idea di Salvini è quella di ripristinare i Cie, centri di identificazione e di espulsione, che saranno “chiusi affinché la gente non vada a spasso per le città”, ha detto il 6 giugno, perché i cittadini non vogliono avere “dei punti dove uno esce alle 8 di mattina, rientra alle 10 di sera e durante il giorno non si sa cosa fa”. A chi gli obiettava l’opposizione delle Regioni, il ministro ha replicato di aver già parlato con tutti i governatori leghisti “che non vedono l’ora di avere centri chiusi”. A parte che sarebbe davvero curioso aver rifiutato un Cpr da 200 posti anch’esso chiuso per avere un Cie molto più grande perché gli irregolari sono 500mila, l’evidente contraddizione sta nelle parole di Luca Zaia, presidente della Regione Veneto, per il quale “strutture con un centinaio di posti e non oltre possono essere utili in attesa che si decida se un extracomunitario ha diritto al riconoscimento di profugo oppure no”. Quindi: non oltre 100 posti. Salvini non ha mai quantificato la capienza, ma viene il sospetto che 100 siano pochi. Nel frattempo si cercherà di accelerare le pratiche per il riconoscimento del diritto all’asilo e il ministro incontrerà presto i presidenti delle 50 commissioni prefettizie territoriali e i 250 funzionari appena entrati in servizio per rinforzare gli organici dopo il bando dell’anno scorso.

PROBLEMI LOGISTICI E GIURIDICI

Ci si aspetta, perciò, che nei prossimi giorni si forniscano dettagli su quanti centri dovranno essere realizzati in tutta Italia (decine o centinaia?), con ciò che comporta in termini logistici e di sicurezza e tenendo conto che il contratto di governo firmato da Lega e Movimento 5 Stelle su questo punto è preciso: si parla di “individuazione di sedi di permanenza temporanea finalizzate al rimpatrio, con almeno una sede per ogni regione, previo accordo con la Regione medesima, e con una capienza sufficiente per tutti gli immigrati irregolari, presenti e rintracciati sul territorio nazionale garantendo la tutela dei diritti umani”. Pertanto, la Regione dev’essere d’accordo e dovrebbero essere ospitati (quasi) tutti gli irregolari.

Privare della libertà personale un immigrato irregolare comporta la modifica dell’ordinamento giudiziario, di cui nessuno ancora parla. Il decreto immigrazione di Minniti prevede che nei Cpr un soggetto possa restare massimo 90 giorni e dopo il primo mese tocca al Gip autorizzare per due volte la permanenza per altri 30 giorni più ancora altri 30, scaduti i quali la persona torna in libertà se, come avviene quasi sempre, la nazione di probabile provenienza non la riconosce (o meglio, non vuole riconoscerla) come proprio cittadino. La durata della custodia in questi nuovi centri non è definita, ma ufficiosamente la Lega parla di 18 mesi: un tempo lunghissimo per cui non resta che aspettare il testo della legge e la sua approvazione in Parlamento.

“MENO SBARCHI, PIÙ ESPULSIONI”

Lo slogan di Salvini è ormai noto e riunisce due problemi diversi. La riapertura della rotta dalla Tunisia conferma che sul fronte libico gli accordi tengono: fino all’8 giugno erano arrivati 13.808 immigrati rispetto ai 61.285 dell’anno scorso, pari a un calo del 77,4 per cento e, rispetto a chi proviene dalla Libia, a un calo dell’84 per cento. A questi numeri vanno aggiunte circa 500 persone sbarcate in Sicilia e in Calabria alla fine della settimana. Si sta ricucendo a fatica lo strappo con la Tunisia, in pratica l’unico Paese che accetta regolarmente charter carichi di connazionali rimandati a casa dall’Italia e che si era risentito quando Salvini aveva detto che da lì arrivano anche “galeotti”. È vero che le forze di polizia fermano spesso tunisini già espulsi e magari ex detenuti che erano riusciti a tornare in Italia, ma la diplomazia è fondamentale soprattutto in certe aree.

Per far partire meno barconi ed effettuare più espulsioni servono accordi. Salvini (l’ha detto il 2 giugno a Vicenza) vuole “ragionare su come aiutare anche economicamente i Paesi d’origine della migrazione” aggiungendo di dover andare “in Tunisia, in Marocco, in Egitto, in Libia anche se la situazione è complicata, a concordare che le partenze devono diminuire nell’interesse di tutti”. Il ragionamento non fa una piega, ma va completato: se questo è il suo pensiero, vanno confermati gli accordi stipulati con la Libia e va anche capito che quelle nazioni citate sono l’ultima tappa prima dell’imbarco, non l’origine dei traffici. L’accordo va fatto con i Paesi del cuore dell’Africa e diventa indispensabile il supporto economico dell’Unione europea.

LO SCONTRO CON L’UE E L’INVOCAZIONE DELLA NATO

La bocciatura della bozza di modifica del regolamento di Dublino ha manifestato una spaccatura in seno all’Unione andata oltre la posizione italiana sintetizzata da Salvini con un “non saremo un campo profughi”. La stessa Angela Merkel ha riconosciuto che l’Italia è stata lasciata sola e che sicurezza delle frontiere e asilo sono “temi esistenziali dell’Ue”. Proprio sul fronte della sicurezza delle frontiere, il ministro dell’Interno ha più volte invocato l’intervento della Nato “per aiutarci a difendere il nostro Paese” anche da infiltrazioni terroristiche, senza spiegare che cosa dovrebbe fare in dettaglio.

Nel Mediterraneo, infatti, ci sono già diverse operazioni di sicurezza coordinate tra loro. “Eunavfor Med”, Operazione Sophia, ha ampliato da poco il suo compito dopo che il Consiglio europeo del 14 maggio ha deciso di creare al suo interno una “crime information cell”, una sezione per acquisire informazioni da condividere con Frontex ed Europol. La Nato, invece, ha “Sea Guardian” con compiti di pattugliamento e di sorveglianza aero-marittima (erede dell’Active Endeavour varata dopo l’11 settembre), in sinergia con Sophia e in coordinamento con la Guardia costiera e con l’Agenzia Frontex. Inoltre, la Marina e l’Aeronautica italiane dal 12 marzo 2015, dopo i primi attentati in Europa, sono impegnate nell’operazione “Mare sicuro” a tutela degli interessi nazionali come le piattaforme petrolifere. Dall’agosto scorso Mare sicuro può intervenire anche nelle acque libiche per contrastare traffici illeciti a sostegno della Guardia costiera e della Marina libiche se le autorità di Tripoli ne chiedono l’aiuto. Infine il 1° febbraio, in sostituzione della missione “Triton”, Frontex ha lanciato “Themis” che, pur includendo un’attività di ricerca e soccorso, è soprattutto una missione di controllo delle frontiere, comprendendo anche una raccolta di informazioni di intelligence in funzione antiterrorismo. Insomma, i controlli ci sono.

ONG E MALTA

Salvini ha ragione quando attacca determinate Ong, anche se impedire l’attracco nei porti italiani di quelli che ha definito “vice scafisti” non è possibile se è in atto una missione di soccorso. È vero che certe Ong si rifiutano di chiedere la possibilità di attraccare a Malta così come il governo maltese fa di tutto per non essere coinvolto, pur respingendo le accuse sostenendo di rispettare gli obblighi internazionali. Eppure, il 9 giugno il comandante della nave Seefuchs dell’ong tedesca Sea-Eye ha spiegato che la guardia costiera di Malta ha rifiutato l’ingresso in porto nonostante le pessime condizioni del mare e 126 migranti a bordo. Le registrazioni consegnate alla squadra mobile di Ragusa confermerebbero questa versione.

È certo che Salvini non vuole mollare e diventerà decisivo il braccio di ferro con Malta: il ministro ha intimato alla nave Aquarius con 629 migranti a bordo di dirigersi appunto verso Malta come porto vicino e sicuro, avvertendo che avrebbe chiuso i porti italiani alla ong in caso di diniego da parte delle autorità isolane. E il no è arrivato: “Il salvataggio è avvenuto nell’area di ricerca e soccorso libica ed è stato coordinato dal centro di coordinamento di soccorso a Roma. Malta non è né l’autorità coordinatrice né è competente per questo caso”, ha detto un portavoce del governo maltese. Se restasse questa situazione (diniego di Malta e blocco dei porti), nascerebbe uno scontro internazionale perché c’è un obbligo di salvataggio della vita in mare. Non è ancora chiaro, invece, come il ministro dell’Interno intenda modificare il codice che Minniti fece firmare l’anno scorso alle Ong e che non consentirebbe di “intervenire in maniera efficace”: sembra infatti che alcune navi delle organizzazioni non governative non stiano rispettando le regole sottoscritte.

In conclusione, mentre Salvini ribadisce anche che “gli immigrati regolari e per bene che sono qua sono i benvenuti” e che “chi scappa dalla guerra ha in casa mia casa sua”, è possibile che quando in Parlamento si dovrà discutere di questo tema ci saranno tensioni nel M5S e tra grillini e leghisti. Mentre Luigi Di Maio si tiene lontano da queste beghe, il presidente della Camera, Roberto Fico, esponente dell’ala dura, ha incontrato i rappresentanti di Amnesty International e di Medici senza frontiere sostenendo che “chi fa solidarietà ha tutto il supporto dello Stato” e che anche nel Mediterraneo “vanno supportate le persone e le organizzazioni che aiutano gli altri”. Non proprio un buon viatico per una linea chiara su un tema esplosivo.

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