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Di Maio, il decreto dignità e i conti che non tornano. La versione di Bentivogli

Luigi Di Maio lo vuole a tutti i costi. Matteo Salvini un po’ meno ma in fondo si può fare. A patto che il decreto dignità non si trasformi in una specie di mannaia sulle imprese. Fin qui il problema politico. Poi c’è un problema di contabilità. La creatura di Di Maio, il primo atto ufficiale del governo gialloverde, costa su per giù 3,5 miliardi. Non proprio spiccioli per un Paese in perenne equilibrio precario sul deficit.

Alla Ragioneria lo sanno bene, si sono fatti i conti. Suggerendo alla fine al ministro dell’Economia Giovanni Tria, che somme e sottrazioni le sa fare bene, appoggiato per l’occasione dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti, di convincere il Cdm in programma oggi a prendersi una pausa di riflessione. Missione, almeno per il momento, riuscita.

In ordine sparso, partendo dalle imprese, il fatto è che Di Maio in qualità di ministro del Lavoro, punta a di ridurre il grado di flessibilità e di precarietà del mercato del lavoro. Che evidentemente piace meno alla Lega ed al suo bacino elettorale. E del resto anche Confindustria, Confesercenti e Confcommercio hanno protestato contro questa misura.

Al tema lavoro, infatti, la bozza del decreto dignità dedica parecchio spazio. Per scoraggiare i contratti a termine, per esempio, sarebbero previste diverse novità rispetto alle attuali regole. Per prima cosa il ritorno del causalone, per cui l’impresa deve motivare la scelta del contratto a tempo determinato in luogo di quello indeterminato. Se confermato, sarà possibile stipulare un primo contratto a termine fino a un anno senza causale, in seguito al quale scatterebbe l’obbligo (a partire dal primo rinnovo, quindi).

E poi l’abolizione del cosidetto staff leasing, con conseguente aumento della somministrazione a tempo determinato (+0,5% per ogni rinnovo, a partire dal secondo) ed eliminare quello a tempo indeterminato. Infine, questi contratti di lavoro sarebbero conteggiati per stabilire il limite del 20% di stipule a termine previsto per singola impresa. Insomma, a conti fatti, una stretta non certo leggera sulle aziende.

Secondo fattore, le coperture. Approvare il decreto dignità comporterebbe per le casse pubbliche un costo di circa 3,5 miliardi. Il che vuol dire servire a tavola una grossa fetta del menù previsto nel contratto di governo: quanti soldi rimarrebbero poi per finanziarie flat tax e reddito di cittadinanza? Zero. Per non parlare del fatto che secondo la Confindustria servirebbe addirittura una manovra bis da 9 miliardi. Nota bene, quattro giorni fa lo stesso Tria ha garantito ai colleghi europei dell’Ecofin che per il 2018 non ci sarebbero state misure con costi aggiuntivi per lo Stato, insomma decreti sì, ma a saldo zero.

Chi le esigenze delle imprese e dei lavoratori le conosce bene è Marco Bentivogli, leader dei metalmeccanici Cisl. Raggiunto da Formiche.net in una pausa della segreteria del sindacato, Bentivogli mette sul piatto due obiezioni. Innanzitutto “avevamo degli auspici diversi. Questo governo ha sempre detto che voleva ascoltare le parti sociali e invece mi pare che sia stato tutto calato dall’alto, senza un minimo confronto. Le belle intenzioni iniziali, per una vera dialettica con le parti, dove sono?”. La stessa denuncia è arrivata anche da Confindustria, che avrebbe preferito prima un confronto con il governo e poi eventualmente valutare la fattibilità del decreto.

Non è finita qui. Nel merito del provvedimento, Bentivogli è abbastanza tranchant. “Mi pare abbiano cambiato idea più volte ma a me, oltre al discorso della forma di cui ho appena parlato, questa misura non convince. La trovo qualcosa di ideologico. Punto”.



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