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Che fine fanno i nostri rifiuti elettronici: l’inferno tossico di Sodoma e Gomorra

Di Ylenia Citino

Da decenni a livello globale va avanti un processo silenzioso e irreversibile per cui tonnellate di rifiuti pericolosi provenienti dai paesi economicamente avanzati invadono l’Africa. Se si confrontano le quantità di prodotti elettronici immessi sul mercato ogni anno con quelli smaltiti è evidente che i dati sono troppo discrepanti. Il grosso dei rifiuti, infatti, finisce sul mercato nero dei traffici illegali transfrontalieri. La vecchia convenzione di Basilea, stipulata nel quadro delle Nazioni Unite per proibire lo smercio di rifiuti tossici nei paesi in via di sviluppo, resta carta straccia per i trafficanti di lungo corso. Basta andare in luoghi come Agbogbloshie, detto anche “Sodoma e Gomorra”, per rendersene conto: un inferno maledetto in cui vivono fra le 80 e le 100 mila persone, proprio dietro al rigoglioso quartiere finanziario di Accra, in Ghana. Qui si è creata un’economia parallela. Dove prima esisteva una foresta di mangrovie, oggi i rifiuti abbondano sulle sponde di una palude avvelenata. Televisori, lavatrici, telefoni, frigoriferi. Ridotti a pezzi, vengono bruciati notte e giorno. I metalli di valore vengono rivenduti. Le polveri tossiche si spargono su tutta la città. Gli acidi corrosivi contaminano le acque e il cibo. In questo luogo si estende a perdita d’occhio una delle discariche più grandi di tutta l’Africa: è il cimitero del consumismo elettronico.

Forse in pochi lo sanno, ma mediamente da uno smartphone si possono ricavare 25 milligrammi d’oro. Se ci fidiamo di questa cifra, dovremmo convenire che non si tratta affatto di una quantità di poco conto. Basti pensare che sono passati già due anni da quando la Apple ha annunciato di aver prodotto il miliardesimo iphone. Perciò, facendo un calcolo da prima elementare si arriva a scoprire che sino al 2016 sono state impiegate 25 tonnellate di oro. Soltanto dalla Apple.

Il telefonino è, inoltre, una miniera di ulteriori metalli preziosi: rame, argento e platino, in cima alla lista. Per non parlare del rarissimo coltan o del cobalto: i minerali insanguinati del Katanga. I rifiuti elettronici, smartphone compresi, possono diventare a tutti gli effetti una fonte di ricchezza, ma i processi di smaltimento richiedono tecnologie avanzate. Le procedure burocratiche sono complesse e le tasse ambientali, soprattutto in Europa, sono molto esose. Si tratta pur sempre di oggetti che, per le sostanze tossiche che contengono, sono classificati come “pericolosi”. Ecco perché molti furbetti preferiscono disfarsene in altra maniera: il porto di Rotterdam rappresenta un hub fondamentale per questi container che “ufficialmente” contengono elettrodomestici ed apparecchiature elettriche o elettroniche “di seconda mano”. Senza dimenticare i moli di Cina e Stati Uniti, che sono anch’essi paesi ad alto standard di consumo le cui le restrizioni all’esportazione di spazzatura tossica sono di gran lunga più lasche e il monitoraggio è meno efficiente.

Dopo settimane di navigazione, le gigantesche navi portacontainer giungono in Africa, nel golfo di Guinea. Al momento dello sdoganamento, i rivenditori locali fanno a gara per acquistarne il contenuto a peso, pur sapendo che l’80% degli oggetti è guasto ed inutilizzabile. Si tratta, pertanto di rifiuti. Ma in Ghana, così come in Nigeria, paesi in cui finisce la maggior parte di questi scarichi, non si possiedono impianti di riciclaggio sofisticati, tali da processare rifiuti di questo tipo. Così nasce Agbogbloshie.

Il traffico transfrontaliero illegale di rifiuti tossici ha alimentato in questo luogo un mercato di scorie tossiche. Tutti i giorni vengono depositati quintali di roba proveniente dal porto di Tema. Sono trasportati in camion, poi redistribuiti con i carretti di legno dei “porters”, i portatori di rottami, che arrivano a compiere anche quaranta o cinquanta chilometri al giorno, per finire in questa estesa discarica a cielo aperto, dove la terra è ormai marcia.

La povertà e la mancanza di risorse nelle regioni del nord ha portato tanti ragazzi a migrare verso la capitale. Ma il processo di urbanizzazione, inarrestabile e tumultuoso, non è gestito da nessuno: è un fenomeno lasciato a se stesso. E così le baraccopoli, moltiplicatesi nel centro della città, sono diventate sempre più popolose. Per sopravvivere alla giornata, questi giovani sono disposti a fare di tutto. Come Mohamed, che viene da Tamale, e lì, ad Agbogbloshie, brucia cavi elettrici dalle sei del mattino alle sei di sera. Dodici ore in cui, fra le esalazioni tossiche e le scintille dei roghi, avvelena il proprio corpo per l’equivalente di 5 euro al giorno. Mohamed ha solo vent’anni ma quel posto gli sta bene, perché lavorando lì riesce a mandare 3 euro e 75 alla famiglia rimasta al nord. Il resto, un euro e 25, lo usa per se stesso e la moglie incinta: una somma sufficiente a non fare la fame in quel girone dantesco. Sempre meglio della vita al nord, dove soldi non ne giravano. Si andava avanti col baratto, come secoli fa.

Gli chiedo se è consapevole che stando tutto quel tempo lì, senza maschera protettiva o guanti, entra a contatto con veleni come il mercurio, il berillio, il cadmio o il piombo, ma lui, che a stento ha finito le scuole primarie, non sa di cosa parlo. Mi risponde che qualche volta uno di loro “si ammala”, ma poi gli passa e torna a lavorare. I “boys” che bruciano i rifiuti non lavorano lì a lungo. I tempi di permanenza sono brevi: due, tre mesi al massimo. Guadagnano tutto quello che possono e poi si spostano. Solo alcuni reggono anni. Ma di questi processi nomadici nessuna autorità ha mai effettuato statistiche, andando ad indagare, ad esempio, sulle patologie sviluppate, sulla qualità dell’aria o sull’età media di vita. Sono dei reietti, dei paria. Vittime del benessere di altri continenti. Eppure su quella infinita poltiglia di veleni, su quei pascoli di plastica e diossina, comandano loro. Mohamed è sempre lì davanti a me. Mi racconta fieramente della nuova baracca che è riuscito a mettere su con i propri guadagni. Gli chiedo quali sono i suoi sogni per il futuro. Mi risponde che vuole diventare uno “scrap dealer”. Vuole spostarsi, cioè, qualche centinaio di metri più in là per gestire la compravendita dei rifiuti.

Padre Subash Chittilappilly, dei Missionari della Carità, mi guida in quella teoria di rifugi malmessi. Vive lì da dieci anni gestendo una scuola e una clinica grazie al contributo del missionario laico italiano Claudio Turina. Il loro progetto si chiama City of God, una goccia di speranza in quel mare di disperazione. Eppure la gente che popola le strade non si lamenta, sembra quasi assuefatta a quell’aria irrespirabile. La loro vita scorre uguale giorno dopo giorno, frutto del destino che Dio ha voluto per loro. È una cultura di eroica sopportazione, ma anche di rassegnazione e probabilmente di incoscienza. I bambini, scalzi e numerosi, affollano gli spazi e razzolano felici, ignari di tutte le insidie di quella vita. Molti sono nudi o vestiti solo di un pannolino. Guardo i loro piedini gioiosi affondare nel suolo appestato color nerofumo.

Mentre avanzo a fatica su quel fango bituminoso, scavalcando grovigli di cavi, tastiere, mouse, e microchip, Padre Subash mi mette una mano sulla spalla. Si è accorto che sono sconvolta, disorientata. Ma gli sono grata, perché senza emettere giudizi mi ha mostrato la realtà di un sistema corrotto e ipocrita, le cui colpe sono equamente condivise. Attribuirne la responsabilità al cosiddetto neocolonialismo imperialista, consumista e capitalista o all’ingordigia di una classe dirigente africana che vede, ma chiude un occhio mentre apre il portafoglio, è troppo facile. Qui, ogni luogo comune è fuorviante, ogni etichettatura è mendace. Le radici di questo stato delle cose sono molto più complesse. Ma è impossibile rintracciarle chiaramente, senza trovarsi disarmati e impantanati nell’ineluttabilità di un disegno troppo grande per essere corretto. Agbogbloshie succede in Ghana, ma se continuiamo così, rischiamo che succeda ovunque. Finché non ci sarà più nessuna risorsa da sfruttare.

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