Con Giovanni Tria abbiamo discusso a lungo anche dalle pagine di Formiche.net. Non ho alcuna intenzione di tesserne le lodi. Ma di raccontare quel che penso di lui. Della sua grande preparazione, come economista. Ma soprattutto del suo carattere: quell’atteggiamento sempre dialogante, seppure fermo nel credere in alcuni principi, rispetto ai quali valutare la girandola delle quotidiane convulsioni. In un momento non facile della vita politica italiana ci vuole un uomo che, innanzitutto, non sia un esagitato. Che abbia presente quali sono i suoi compiti, ma anche i limiti al suo operare. Nella ricerca delle necessarie convergenze, che non richiedono dosi eccessive di eroismo, ma tanto tanto buon senso. Quel che non manca certo ad una persona come Giovanni.
Lo sostiene innanzitutto una solida preparazione tecnica. Che può sembrare un optional. Ma che invece, in una situazione complicata come quella italiana, può fare la differenza. Governare burocrazie agguerrite, senza poter disporre dei necessari strumenti culturali, significa giocare la partita con una gamba legata. Ed è indubbio che la tecnostruttura del ministero dell’Economia non è facile da governare, se non si hanno le risorse intellettuali per egemonizzarne le pulsioni. Ne sanno qualcosa i Ministri che lo hanno preceduto, quando si sono trovati a proporre cose ritenute indigeste. E finite per essere bloccate.
L’impresa difficile è comprendere quali siano gli spazi effettivi per un corretto agire politico. Muoversi tra i mille impedimenti dei regolamenti, le quadrature dei conti o le possibili reazioni del mercato. I margini sono sempre molto stretti. Ed allora occorre sapersi muovere con cautela, ma con altrettanta determinazione una volta individuati i possibili snodi. Ancora più complesso il rapporto con il Parlamento, anche se la forza della maggioranza, che sorregge il governo, è notevole. Ma al Senato lo scarto è molto contenuto. Per non parlare, infine, dei rapporti all’interno dei un Consiglio dei ministri che è, almeno, bicefalo. Con un Presidente del Consiglio che sarà chiamato ad una continua mediazione nella scelta dei temi e dei tempi di realizzazione, le cui ricadute immediate saranno proprio sul ministro dell’economia.
Il bagaglio tecnico di Giovanni Tria è uno scudo che gli consente di schivare i colpi più duri. Poi spetterà a lui trovare le forme più opportune per rinforzare la cittadella, chiamato a difendere. C’è tuttavia un aspetto tutt’altro che secondario da considerare: il carattere dell’uomo, di cui abbiamo detto in precedenza. È tutt’altro che un urlatore seriale. Preferisce i toni più soffici del ragionamento, senza per altro rinunciare ai propri principi. Non ha ideologie da difendere. Crede nella forza del mercato, ma al tempo stesso ritiene che l’intervento dello Stato, seppur nel rispetto di determinati principi, non sia una bestemmia.
In Italia abbiamo un disperato bisogno di infrastrutture. Non ci vuole molto per capirlo. Basta vedere lo stato di molte città o considerare il dramma del Mezzogiorno. Dove la stessa idea di mercato è una semplice astrazione. Se le merci non possono viaggiare a causa di una logistica inesistente, gli scambi tendono ad essere gestiti da pochi volenterosi, che si trasformano in piccoli presidi oligopolisti. Che grazie alle limitazioni fisiche strozzano le potenzialità dell’offerta. Ed allora la concorrenza, che è la linfa del mercato, tende a scomparire dando spazio alle crescenti posizioni di rendita.
Dovrebbero essere i privati a porsi il problema. Ma il loro è sempre un orizzonte di breve periodo. Presuppone una domanda che non solo si è formata, ma che è anche solvibile. Capace, cioè, di ripagare il necessario investimento. Se queste sono le strozzature, ecco allora che lo Stato deve svolgere la sua parte. Esercitare quel ruolo di supplenza che consenta di fertilizzare il terreno. Quindi progetti di investimento, ma non solo. Struttura tecniche adeguate per gestire al meglio una complessa architettura ingegneristica. Uno dei pallini del neo ministro.
Ma dove prendere le risorse necessarie? A parte il fatto che da decenni, per le incompletezze dei progetti o la farraginosità delle procedure, sono da tempo stanziati oltre 40 miliardi: con tanto di delibere del Cipe. Al momento congelati. Quando, invece andrebbero spesi. Vi sono poi le risorse comunitarie, troppo spesso disperse in mille rivoli che occorrerà recuperare. Ma se anche tutto ciò non dovesse bastare, la riflessione deve giungere al cuore del problema: che si chiama fiscal compact. La cui architettura non è coerente, almeno per l’Italia, con il sottostante quadro macroeconomico. Dove il peso fiscale si è trasformato in una palla al piede che blocca ogni “voglia di fare”.
Ha senso bloccare ogni ipotesi di crescita, quando il surplus delle partite correnti della bilancia dei pagamenti è pari ad oltre il 2,5 per cento del Pil? Non sono queste risorse congelate, ai fini dello sviluppo interno, mentre il tasso di disoccupazione è quello che tutti conosciamo. Sembra di essere tornati ai tempi in cui Maynard Keynes criticava i vecchi ortodossi. Quel loro credere che i soli automatismi avrebbero regolato, alla perfezione, l’equilibrio di piena occupazione, grazie alla flessibilità dei salari verso il basso. Una sana cultura accademica consente di dare le necessarie risposte.
Ma c’è l’Europa. Certamente. Sennonché questi temi vanno analizzati e discussi nelle sedi opportune. Non per ricercare vantaggi immediati, nella richiesta di deroghe imbarazzanti. Ma per introdurre quei cambiamenti che rispondono a criteri di razionalità economica. Che non sono a favore di alcuni, ma nell’interesse di tutti. Compiti non facili attendono quindi il neo ministro. Si ritroverà in qualche modo, di nuovo, sui banchi di scuola. Non più come docente, ma come studente alle prese con esami difficili. Che potrà, tuttavia, superare se troverà il supporto necessario nei suoi colleghi di governo e nella maggioranza parlamentare che sorregge l’intero Esecutivo.