È un tweet a chiudere la principale questione di forma e sostanza sul G7: il documento congiunto non ci sarà, gli Stati Uniti non lo firmeranno, ha annunciato Donald Trump direttamente dall’Air Force One che lo stava portando a Singapore (per l’incontro con Kim Jong-un).
Inizialmente il Presidente americano aveva annunciato il suo appoggio al testo preparato con gli altri sei paesi del vertice — un compromesso che non avrebbe risolto la questione commerciale, il punto profondo dello scontro tra i vari membri dopo i dazi americani, lasciando la strada aperta a nuovi negoziati.
L’annuncio sul dietrofront di Trump ha una motivazione esatta, quantomeno formale: Trump s’è infuriato dopo aver sentito parlare in conferenza stampa il canadese Justin Trudeau, che nella sua conferenza stampa conclusiva ha attaccato la decisione americana di alzare tariffe aggiuntive sull’acciaio dal Canada per ragioni di sicurezza nazionale. “È un insulto”, ha detto Trudeau, ricordando che il suo paese e gli Stati Uniti sono partner, alleati, amici, insomma non certo un pericolo per la sicurezza della nazione americana: e ha annunciato che davanti alla mossa trumpiana il Canada non subirà in silenzio.
È da “debole e da disonesto” dire certe cose, accusa con un tweet Trump, un “false statement” quello di Trudeau e per questo “ho dato istruzione alla nostra delegazione di togliere l’endorsement al documento congiunto”.
Questo genere di documenti sono tipici di questo genere di vertici: vengono concordati più che altro dagli staffer dei leader e di solito servono a indicare più che questioni operative l’unità d’intenti tra i capi di stato e di governo presenti. La loro funzione è prettamente politica, però siccome la loro redazione è quasi scontata, in questo caso l’assenza assume significato. Il G7, il gruppo dei grandi paesi che da quando nel 2014 è stata esplulsa la Russia per i fatti in Ucraina, dovrebbe rappresentare il distillato dell’Occidente, è spaccato (la CNN ha dato l’immagine: “L’Occidente è in crisi” titola un servizio). “G6+1” lo aveva chiamato giorni fa il ministro dell’economia francese.
“Ci atteniamo al comunicato come approvato da tutti i partecipanti al G7”, è la reazione che fonti Ue affidano ai media, per cercare di superare le divisioni, prendendo i tweet come una sfuriata e restando sugli intenti precedenti.
La questione commerciale, base pratica delle spaccature (anche se è in generale l’approccio al mondo a dividere Regno Unito, Germania, Francia, Canada, Giappone, e un po’ Italia, da Trump) è complicata. Provando una semplificazione: Trump sostiene che i paesi del G7, sebbene siano amici dell’America, si comportino in modo scorretto. Sostengono uno sbilancio import/export che sfavorisce gli Stati Uniti e sfruttano contemporaneamente la protezione e l’allineamento con la potenza americana per propri interessi. I dati in parte confermano la situazione, per esempio gli americani soffrono deficit commerciali con tutti gli altri paesi membri, che per altro investono nel settore difesa mostruosamente meno degli Usa. Tutto questo deve finire, perché porta a pratiche commerciali ingiuste che hanno colpito la produzione americana, dice Trump, che cavalca un desiderio di ri-equilibrio degli sforzi e degli impegni americani che da anni esce anche dai più globalisti dei circoli statunitensi (figuriamoci la declinazione trumpiana America First del pensiero).
Al di là della questione sulle dichiarazioni finali, e prima della spaccatura notturna, ciò che resta del G7 canadese è che il presidente Trump ha utilizzato il summit come un proxy per ribadire le sue posizioni in tema di commercio internazionale, con minacce collegate. “Trump fa la sua più spregiudicata minaccia commerciale ai leader del G7”, ha scritto il Washington Post: il presidente americano ha detto ai leader stranieri che devono ridurre drasticamente le barriere commerciali con gli Stati Uniti o rischieranno di perdere l’accesso alla più grande economia del mondo.