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Un primo bilancio della leadership americana visto dalla Casa Bianca

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La mail che tutti i giorni la Casa Bianca invia per fare un briefing quotidiano sulle attività della presidenza (in realtà ha molto di più sapor di propaganda) ieri era concentrata su cinque questioni per cui Donald Trump avrebbe “ricostruito la leadership americana” nel mondo. (Inciso: se ci si pensa pare un controsenso, ammesso che si voglia credere tout court agli analisti e opinionisti che hanno più volte indicato la fine dell’Impero americano e l’inizio, con Trump, di un nazionalismo quasi isolazionistico: la questione è molto più complessa, semplificando potremmo dire che è vero che Trump cavalca l’America First, che è l’opposto di una visione globalista, ma è tutto proiettato a un realistico rafforzamento globale americano, perché senza il Mondo l’America difficilmente sarà di nuovo grande, come dice l’altro grande slogan trumpiano, obiettivo però perseguito alterando gli schemi canonici).

Con ordine. Il primo dei cinque punti citato dal “1600 Daily” è la “distruzione dell’Isis”: l’obiettivo della lotta allo Stato islamico non è ancora stato raggiunto del tutto, però il Califfato ha perso gran parte della sua dimensione statuale formale (anche se meno sfacciatamente controlla ancora fette di territorio, dall’Iraq alla Siria, ma anche in Libia, Egitto, Afghanistan). In realtà, è noto a chiunque, la presa di Mosul e Raqqa è arrivata sotto la presidenza Trump soltanto per questioni cronologiche. Le compagne contro le due roccaforti del Siraq erano state organizzate e lanciate da tempo, ma il campo di battaglia non tiene conto del cronometro politico, e così l’ha riconquista l’ha potuta festeggiare un altro presidente rispetto a quello che aveva iniziato il lavoro già nel 2014.

Se quello dell’IS è effettivamente un aspetto centrale per la riaffermazione globale degli Stati Uniti, perché conferma il ruolo degli americani come tutori della sicurezza internazionale e difensori della democrazia (detto in un modo che piacerà molto agli atlantisti, ma per essere chiari di nuovo, a scanso di equivoci: sono, e sono stati, gli americani a combattere il Califfo in Iraq e Siria, non i russi come ci racconta qualcuno che vuole minare a tutti i costi l’America), gli altri due punti che seguono sembrano un po’ tirati.

Uno, la risposta all’attacco chimico assadista a Douma, ha un po’ più di senso però: forse è stato quello il passaggio più globalista dell’era Trump finora. Una misura di rappresaglia decisa insieme a Francia e Regno Unito, che ha ricevuto l’avallo dell’intero blocco dei paesi occidentali (anche perché quelli che in Italia la criticarono ancora non erano al governo, ndr) per punire la bestialità del regime siriana. A dispetto delle raffinate previsioni di molti disattenti pseudo-esperti, la missione s’è risolta in meno di un’ora, non ha scatenato una guerra turbo-capitalista, e di fatto non ha risolto granché: però era indispensabile, perché di quell’attacco chimico le immagini erano arrivate fino ai media mainstream, e non poteva passare impunito (come successo invece per dozzine di altri casi, altri attacchi chimici compiuti dal regime). La tutela del diritto internazionale è una questione profondissima su cui, almeno in questo, l’Occidente non può dividersi.

Secondo: il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele e il conseguente spostamento dell’ambasciata americana. Non è un risultato fondamentale per il mondo e forse nemmeno per la riconquista della leadership americana, però è probabilmente un grande successo per i rapporti di Washington con gli israeliani, ricompattati adesso come mai in questi ultimi quattro/otto anni di amministrazione Obama.

Poi c’è il ritiro dall’Iran Deal: la decisione si allinea con il grosso riavvicinamento a Israele (e all’Arabia Saudita), ma è una policy da tempo sbandierata da Trump e dai suoi, che non si fidano di Teheran – non sono i soli in realtà, perché una buona metà dei congressisti americani, in forma bypartisan, è sempre stata scettica sull’accordo con gli ayatollah. Però più che un successo globale è stata una scelta unilaterale (e si inquadra nell0inciso di apertura) che ha messo Trump contro i suoi più cari alleati europei.

Infine la Corea del Nord: l’incontro con Kim Jong-un, dice lo staff della comunicazioni della Casa Bianca, è stato “storico”, e porterà verso una “completa, verificabile e irreversibile denuclearizzazione”. Aspetto centrale dei negoziati, su cui in realtà per ora non c’è assolutamente niente di concreto se non intenti e propositi – già in passato stracciati da Pyongyang –, ma questa potrebbe essere la volta buona (si spera, ndr).

A fare un bilancio schietto (non è questo il compito dei comunicatori di White House, però), per il momento l’impronta globale di Trump ha lasciato almeno altri cinque segni negativi: per esempio il ritiro dal trattato di Parigi sul Clima, o ancora lo scontro con gli alleati europei sul dossier iraniano e sul commercio (dove sono finiti offesi anche i partner asiatici), sempre sul commercio il confronto acceso al limite della guerra commerciale con la Cina e poi l’andamento schizofrenico dei rapporti con la Russia (colpita da Washington con sanzioni una via l’altra, ma con Trump che continua a corteggiare Vladimir Putin; ieri la promessa di un faccia a faccia durante l’estate).

Più in generale quello che di negativo trova il mondo è una generale inaffidabilità americana, la mancanza di un pilastro granitico e fermo a cui appoggiarsi, l’alternanza nei rapporti, insomma un procedere caotico: ma queste non è detto che siano categorie negative per la visione trumpiana della cose.

 

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