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Un accordo pragmatico sulla Siria. Così Putin, con Israele, ha convinto Trump

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Nessuno sa esattamente tutti i contenuti dell’incontro a Helsinki tra Donald Trump e Vladimir Putin, ma sembra si sia parlato anche di Siria, e pare che l’americano abbia accettato i termini di un accordo che Mosca aveva discusso con Gerusalemme riguardo il sud del Paese (ormai nella Siria disarticolata dai sette anni di guerra si procede per fasce geografiche e gli interessi esterni dominano sulle necessità; solo il rais Bashar el Assad continua a propagandare l’intera riconquista del paese).

Secondo quel che scrive Josh Rogin, eccezionale editorialista del Washington Post (che come spesso accade con i fondisti del giornalismo anglosassone farcisce le analisi nei suoi pezzi con informazioni dirette e di prima mano), Putin, col presidente americano sarebbe riuscito a essere più convincente di quanto non lo era stato pochi giorni prima del vertice Bibi Netanyahu in una telefonata personale con Trump. Il primo ministro israeliano due settimane fa è stato a Mosca, dove con Putin ha discusso (forse addirittura deciso) come gestire la fascia Sud siriana, su cui lo stato ebraico piazza parte del suo interesse difensivo nazionale. Ci sono le alture del Golan, ancora contese con la Siria dalla guerra del Kippur: ma non è questione di politica internazionale sofisticata. Là Israele registra l’ammassamento di truppe iraniane: le segue quotidianamente con i propri apparati di osservazione, se serve, quando vede superato certi paletti, le bombarda. Sono milizie sciite, come gli Hazbollah, che gli iraniani hanno usato per difendere Assad, offrendogli una formazione sul campo e rifornimenti di armi: ora Israele pensa che l’Iran chieda ai suoi fantocci politici che comandano quella carne da cannone di girare quelle stesse armi verso il sempre più detestato stato ebraico.

La posizione del governo Netanyahu (che ha raccolto faldoni di intelligence su questa connection anti-israeliana che potrebbe usare la Siria come piattaforma di attacco) è semplice: gli iraniani non devono stare lì. Fate quel che volete ma cacciateli prima che ci pensiamo noi a farlo a cannonate. E lo dice a Mosca e Washington: tra i primi cerca influenza, perché sa che la partnership d’interessi che i russi hanno con gli iraniani sulla Siria può portarsi dietro termini di scambio con Teheran; tra gli americani cercano alleati che offrano sponde e coperture diplomatiche sulla linea.

Concentrati sulla faccenda delle interferenze alle elezioni, magari è sfuggito che Trump nella conferenza stampa del vertice aveva detto: “Abbiamo discusso di Israele e della sicurezza di Israele, e il presidente Putin è molto coinvolto ora nella discussione che noi abbiamo con Netanyahu su come risolvere qualcosa con la Siria circostante […] e in particolare per quanto riguarda la sicurezza e la sicurezza a lungo termine di Israele”; Putin anche aveva parlato di questo accordo: “Questo porterà la pace sulle alture del Golan e porterà un rapporto più pacifico tra la Siria e Israele, e anche per garantire la sicurezza dello stato di Israele”, aggiungendo che “[Trump] ha prestato particolare attenzione alla questione durante i negoziati di oggi, e vorrei confermare che la Russia è interessata a questo sviluppo, e ciò agirà di conseguenza”.

Il motivo per cui la questione adesso si fa più stringente è che a breve la Russia aiuterà il governo siriano a strappare al controllo dei ribelli l’ultima striscia di territorio lungo al confine israeliano, e Tel Aviv vuole garanzie sul futuro — gli israeliani sono talmente pragmatici in questo che negli anni passati hanno preferito fornire assistenza quanto meno sanitaria ai soldati dei gruppi qaedisti anti-Assad che nell’area combattevano le milizie sciite governative. Visto che gli Stati Uniti non hanno intenzione di muoversi, anzi Trump calca spesso sulla volontà di tirar fuori dal paese le truppe speciali che, in una guerra parallela, hanno schiacciato il Califfato, ed ha già congelato tutti gli aiuti di stabilizzazione al nord-est della Siria (un’area che lotta per riprendersi da anni sotto il dominio dello Stato islamico) Netanyahu cerca la strada politico-diplomatica, e la gioca  con realismo a Mosca, che è il potere forte in Siria (Washington è un attore secondario però ha un enorme peso, ed è bene sia coinvolto).

A giugno, Brett McGurk, l’inviato del Dipartimento di Stato alla coalizione globale dello Stato anti-islamico, e David Satterfield, l’assistente segretario di Stato per gli affari del Vicino Oriente, hanno incontrato i loro omologhi russi a Vienna per discutere vari aspetti della questione siriana, ma i due non c’erano ai colloqui tra i leader, nemmeno in riunioni collaterali, e questo dimostra che la Casa Bianca non ha una reale strategia in Siria, e soprattutto non ha interesse ad averla o coltivarla.

Sotto l’accordo, Israele (e ora gli Stati Uniti, presumibilmente) apoggerà formalmente il controllo del regime di Assad sull’area e lavorerà per attuare l’accordo del 1974, che stabilisce i confini fisici e prevede l’impiego di osservatori ONU tra i siriani e israeliani. Secondo il nuovo accordo, la Russia accetta di tenere le truppe iraniane e i gruppi di collegati a 80 chilometri dal confine di Israele (se possono), e Putin promette di non obiettare se Israele colpisce gli iraniani nel sud della Siria, specialmente se l’Iran dispiega armi che minacciano Israele, come missili strategici o sistemi antiaerei.

Per Washington l’intesa è armoniosa, mette d’accordo i super alleati israeliani e gli affascinanti interlocutori, va contro gli iraniani (cosa che piace ai sauditi, altri alleati) e permette un disimpegno americano sul dossier anche in prospettiva allargata e futura. Funziona per il Trump America First.

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