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Innovazione e start-up, ecco cosa faremo. Parla Luca Carabetta (M5s)

innovazione

Intanto un’indagine conoscitiva, poi forse una commissione permanente e in futuro, chissà, anche un ministero dedicato. La sfida dell’innovazione – che l’Italia non può permettersi di perdere per garantire sviluppo al Paese – passa attraverso numerosi step. Alcuni solo eventuali e altri già certi, ma con un obiettivo ben definito: fare in modo che pure da noi – come avviene in altre parti del mondo, si pensi ad esempio alla Silicon Valley in California – le start-up siano messe in condizione di sprigionare tutto il loro potenziale. Che si traduce, in fondo, in maggiore crescita economica e più posti di lavoro. Un tema decisivo per le sorti del Paese di cui si sta occupando da vicino in questi primi mesi di legislatura l’esponente del MoVimento 5 Stelle e vicepresidente della commissione Attività produttive della Camera dei Deputati Luca Carabetta, tra i promotori dell’indagine conoscitiva sull’innovazione in Italia recentemente lanciata con la quale, a partire da settembre, saranno ascoltati tutti i soggetti del settore. Primo e fondamentale focus il mercato del capitale di rischio, ancora troppo poco sviluppato.

Carabetta, perché avete promosso questa iniziativa?

Per fare il modo che tutto il sistema Paese si concentri sulla questione venture capital. Finora la policy in ambito start-up ha consentito la nascita di numerose imprese innovative e riconosciuto loro alcuni strumenti utili. Ma non basta. Troppo poco è stato fatto dal punto di vista del mercato dei capitali. E il risultato è sotto gli occhi di tutti: siamo dalle 10 alle 60 volte più indietro rispetto ad altri Paesi.

Cosa è mancato finora?

L’investimento per così dire alla Silicon Valley è quasi statistico: nel senso che il venture capital distribuisce le sue risorse nei confronti di un tot di aziende valide con la consapevolezza che una certa percentuale statisticamente avrà successo e un’altra no. Con la scarsa liquidità italiana, tutto questo non è possibile. Da noi questo mercato arriva a 130 milioni a fronte di cifre decisamente più elevate nel Regno Unito, Francia, Germania e Spagna. Non c’è dubbio che il nodo in Italia sia rappresentato dal capitale di rischio.

Come si svolgerà l’indagine?

Vogliamo aprire un canale tra istituzioni e stakeholders in modo che, a partire da settembre, si inizino a ad ascoltare in audizione parlamentare le varie categorie coinvolte, dai fondi di investimento alle stesse start-up fino ai business angel. Raccoglieremo le proposte per il settore, le vaglieremo e, nel caso, le realizzeremo in collaborazione con il governo.

Quanto immagina che durerà l’indagine conoscitiva?

Al momento il termine è previsto per marzo ma è prorogabile. Uno strumento volutamente flessibile che può essere rimodulato a seconda delle varie esigenze e condizioni di contesto.

Quali soggetti pensate di coinvolgere nell’investimento in capitale di rischio?

Come ha sottolineato il ministro per lo Sviluppo economico Luigi Di Maio quando ha illustrato le sue linee programmatiche di fronte alle commissioni parlamentari, puntiamo a coinvolgere nel capitale di rischio anche casse previdenziali, casse di risparmio, fondi pensione e assicurazioni. Realtà che oggi già investono ma in modo molto tradizionale. È molto positivo, ad esempio che Enasarco abbia già dichiarato di voler investire in economica reale con riferimento specifico al venture capital.

Dunque scattare una fotografia del settore per capire poi come muovermi. Giusto?

Esattamente, per questo ci serve fare queste audizioni formali, che tra l’altro saranno registrate e trasmesse. Rappresenteranno il punto di partenza degli interventi successivi. Confidiamo che ci consentano di capire chiaramente perché siamo a questo punto e come si possa andare avanti.

Un intervento di supporto al settore, pare di capire, che immaginate fortemente partecipato. Sarà così?

La stessa indagine conoscitiva non è segnale di imposizione nei confronti dei soggetti che operano nel settore, bensì di apertura verso l’ecosistema per aprirci a suggerimenti e consigli. Andremo sul territorio ad ascoltare e a spiegare. In primis agli imprenditori per rappresentargli che esiste questa opportunità e come sfruttarla. E poi anche nell’ottica di dare un contributo dal punto di vista della formazione su queste tematiche.

A questo proposito, come deve cambiare a suo avviso il sistema dell’istruzione italiano in modo da permettere ai più giovani di sfruttare appieno le potenzialità dell’innovazione?

L’idea è che si debba fare una riforma delle scuole superiori e degli istituti tecnici, con cui introdurre introdurre gli elementi necessari a far orientare gli studenti. Oggi, sicuramente, ci sono nuove tecnologie da studiare. Ma innanzitutto è la forma mentis che deve cambiare. Perché non si parla di imprenditorialità innovativa già nelle scuole superiori o nelle facoltà di ingegneria? Il lavoro che si va fare nel mondo dell’innovazione è nuovo, pionieristico. Vuol dire che bisogna avere il metodo e le soft skills necessarie per poterlo affrontare.  Tutti devono essere messi nella condizione di poter creare una propria realtà imprenditoriale.

Rimanendo in tema, ma spostando un po’ l’obiettivo, cosa farete con Industria 4.0?

Va bene e abbiamo già detto di volerla rafforzare. Il perimetro stesso degli incentivi sarà ampliato e di conseguenza avremo investimenti maggiori. Ripeto, il capitolo che è mancato finora è il capitale di rischio. Sono convinto che il prima possibile Parlamento e governo si muoveranno per stimolare il venture capital.

In pratica, i soldi nel nostro Paese ci sarebbero pure ma bisogna investirli in questo senso?

È un mercato latente che non aspetta nient’altro che un po’ di sostegno sia in termini di comunicazione che in fatto di regolazione per poter esplodere. E noi abbiamo tutte le risorse umane e imprenditoriali per poter sostenere l’eco-sistema dell’innovazione: basta davvero muoversi nella direzione giusta.

È il tasso di sopravvivenza il vero problema delle start-up in Italia?

Certamente non è l’avvio che è già abbastanza incentivato, anche se possiamo fare ancora qualcosa per ridurre gli oneri. Trovare fino a 50.000 euro nel nostro Paese non è così complicato. Magari si riescono anche a trovare i 150.000 successivi necessari a dare gambe e respiro all’idea. Il problema, invece, è che dai 200.000 euro in su le cose si fanno molto più complicate. In sostanza, è normale che da noi si riesca a dare il via a un’attività e a farla partire. Ma manca quel gradino ulteriore che permette di lanciarsi nell’economia di scala. Noi vogliamo intervenire in questo senso.

Per fare in modo che le start-up sopravvivano, crescano e si sviluppino fino a diventare grandi imprese?

Certamente non dobbiamo pensare alle start-up come a piccole e medie imprese tradizionali che nascono e dopo 10 anni hanno 15 dipendenti e magari pure un fatturato rilevante. Questa non è una start-up. La start-up è un’impresa che nasce piccola ma che ambisce a diventare un unicorno. E, quindi, a occupare centinaia o migliaia di dipendenti e a fatturare decine di milioni solo nei primi anni di vita. Investire in innovazione vuol dire investire in nuovi unicorni, in nuove multinazionali italiane. Con tutte le conseguenze positive in termini di posti di lavoro.

In questo senso come procedono i lavori dell’intergruppo parlamentare sull’innovazione?

Ci siamo già incontrati, è un’importante luogo di confronto di cui, per la verità, i parlamentari del MoVimento 5 Stelle rappresentano per distacco il gruppo più numeroso. Tra le questioni di cui si è discusso vi è la possibilità di creare una nuova commissione permanente sull’innovazione. Stiamo ragionando su questa soluzione nella consapevolezza che parlare di innovazione significa parlare di sviluppo economico, lavoro, economia, istruzione, esteri. Un tema estremamente orizzontale. Ci sono già idee per arrivare a una commissione in materia, detto che, in prospettiva, non sarebbe avere male avere un ministro dedicato.


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