Dice il saggio: “Tra nessun decreto e un cattivo decreto è meglio nessun decreto”. Purtroppo però il “capo politico” del M5S nonché vice presidente del Consiglio dei Ministri nonché ministro del Welfare nonché ministro dello Sviluppo Economico decide il contrario, debuttando nella sua veste governativa con un provvedimento deludente, sciatto e miope.
Il decreto “dignità” passa a tarda sera in un Consiglio dei Ministri azzoppato politicamente dall’assenza di Salvini (non del tutto casualmente in Piazza del Campo a Siena per il Palio), con i ministri leghisti imbronciati ed i tecnici (Tria in testa) assai preoccupati: insomma un vero capolavoro sotto ogni profilo. Questo effetto si produce essenzialmente per quattro motivi (tutti riconducibili al merito del provvedimento stesso) che sono facilmente riassumibili.
In primo luogo sono pessime le norme in materia di lavoro, pur essendo ispirate al nobile (ma un po’ datato) principio della lotta alla precarietà. Il decreto infatti rende la vita più difficile non solo ai datori di lavoro (che dovranno anche affrontare molte cause legali per effetto della introduzione della “causale” nel rinnovo dei contratti a tempo determinato) ma anche ai lavoratori, che da beneficiari del decreto finiranno per esserne le vittime.
Creare lavoro per decreto è impossibile, mentre invece è decisamente alla portata di una norma distruggere occasioni di lavoro: esattamente quello che fa il testo approvato ieri massacrando anche il regime delle somministrazioni, compromesso tutto sommato dignitoso in un mondo dove, piaccia o no, le opportunità sono poche e precarie. Chi ha dei dubbi in proposito legga l’intervista di questa mattina del ministro Centinaio a Repubblica, dove si legge un autorevole membro del governo chiedere a gran voce l’introduzione dei voucher, indispensabili per i lavori stagionali in agricoltura.
In secondo luogo c’è la parte fiscale, del tutto svuotata rispetto ai roboanti annunci delle due settimane precedenti. Qui si commette un doppio “delitto”, perché innanzitutto non si dà seguito a promesse fatte e, inoltre, si rende quindi evidente la permanenza in vita solo delle recenti “marchette” fiscali, come quella sul rinvio della fatturazione elettronica per i benzinai.
Al terzo posto c’è il tema delle scommesse on line e della loro pubblicità. Il decreto (pur spinto dalla condivisibile volontà di combattere la ludopatia) finisce per massacrare la strada legale al gioco d’azzardo con effetti micidiali su vari fronti (in primo luogo per le entrate fiscali dello Stato e poi anche per il mondo del calcio, che esce penalizzato in modo durissimo). Il tema esiste e su questo il ministro Di Maio ha ragione. La strada imboccata però è ad alto rischio, perché finisce per incentivare il gioco illegale, vecchia piaga dell’Italia da dimenticare che ben conosciamo.
Infine ci sono le sanzioni per chi delocalizza impianti produttivi. Concetto giusto ma di improbabile applicazione su scala nazionale, poiché a forte rischio di ricorso in sede Ue (per giunta molte imprese estere potrebbero giudicarlo un ostacolo ad investimenti in Italia). Ad ogni modo ciò che più preoccupa del decreto è l’atteggiamento culturale, tutto fatto di regole, sanzioni, divieti.
L’Italia deve liberare energie (nella legalità), non finire soffocata da leggi e leggine. Al ministro Di Maio diciamo con franchezza che ieri sera ha esordito malamente nella sua veste di governante, come peraltro dimostra lo scarso entusiasmo di tutti i più autorevoli membri del suo governo, leghisti in testa.
Se questa è la rivoluzione giallo-verde (anzi ormai giallo-blu, vista la svolta cromatica di Pontida) i “ragazzi” non andranno lontano. A Bruxelles (come a Parigi e Berlino) la soddisfazione si taglia fette di monumentali dimensioni.