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Il cigno nero e il fiscal compact. Ovvero come salvare l’Europa (e l’euro)

0, 1,5, 3 o 5? Ecco i numeri sui quali si stanno interrogando oggi i mercati a riguardo della situazione italiana del deficit pubblico su Pil per il 2020; un’incertezza per la quale gli spread, oltre che alle improvvide dichiarazioni del ministro Savona sul Piano B via dall’euro, rimangono strutturalmente più alti, a quota 250, di quanto non lo fossero prima delle elezioni (la metà, 125).

0 è il bilancio in pareggio che vogliono la Commissione europea ed i falchi del Nord Europa, ottenibile solo con ulteriori manovre austere di circa 25 miliardi. Una Commissione europea così stolta da non capire che in tal modo spingerebbe l’Italia, e dunque l’Europa dell’euro, nel baratro del populismo antieuropeo vociferante, a causa della crescente disoccupazione che genererebbe, specialmente nel Meridione ma non solo.

5, come il bilancio che avremmo dopo il lancio della flat tax e del reddito di cittadinanza, se mai approvate. Manovre così erratamente espansive (visto che pochissimo farebbero per rilanciare l’economia italiana, in preda a pessimismo diffuso e scarsa produttività) da convincere i mercati a far esplodere immediatamente gli spread a livelli ancora più alti, implicando l’uscita immediata dell’Italia dall’euro.

1,5 è con tutta probabilità il livello di deficit che ha in mente il ministro Tria, una scelta che vorrebbe comunque dire discostarsi dalle richieste europee. Per questo motivo Tria poco vi accenna, parlando sempre del far scendere il debito su Pil piuttosto che il deficit su Pil. La sua idea è semplice: non fare austerità ma investimenti pubblici, trovando i soldi per finanziarli non tanto nel maggiore deficit ma in una spending review che identifichi sprechi nella spesa corrente, e generare così quella crescita economica che permetta al debito su Pil di scendere malgrado non debba scendere (ma né salire) il deficit. Scommessa difficile, perché la spending review ci mette del tempo a generare fondi sufficienti: e fino ad allora niente investimenti pubblici, unico volano della ripresa contemporanea della congiuntura (specie via appalti nel Meridione) e competitività delle nostre imprese via maggiore produttività.

E 3? 3% di deficit-Pil che cosa sta a significare? E’ quel livello a nostro avviso ideale per rilanciare la crescita credibilmente senza allarmare i mercati e capace di essere approvato da una Merkel conscia della necessità di avere accanto un partner italiano, stabile e non in rivolta, nella costruzione europea del futuro. 3% perché è il livello simbolico scelto dall’Europa più di venti anni fa per interpretare il concetto di stabilità dei conti pubblici, e quindi destinato a non apparire troppo minaccioso ed irresponsabile ai mercati. 3% perché darebbe al ministro Tria immediate risorse per attuare il suo piano di investimenti pubblici senza attendere troppo che si materializzino le risorse della spending review, e ottenendo dunque ossigeno essenziale, sia politico che sociale, per far sì che l’Italia dell’euro possano sopravvivere.

Come riuscirci? In un sol modo. Buttando dalla torre il Fiscal Compact europeo, e non l’euro. Buttare giù l’euro ci allontanerebbe per sempre dalla sfida del XXI secolo del governare un mondo globale con alleati essenziali; e ciò purtroppo avverrà se non capiamo che non si può più superficialmente chiedere di rimanere nell’euro senza spiegare come si genereranno oggi, subito, condizioni di crescita economica immediata. Buttare giù il Fiscal Compact permetterebbe alla politica fiscale (finalmente espansiva) di fare il suo ruolo in quelle aree geografiche colpite da avversità, dando tempo alle riforme di avere i loro effetti, generando consenso politico e sociale e salvando l’Europa dell’euro.


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