Skip to main content

DISPONIBILI GLI ULTIMI NUMERI DELLE NOSTRE RIVISTE.

 

ultima rivista formiche
ultima rivista airpress

Nato, Trump, F-35 e Italia. Parla l’ambasciatore Giansanti

Libia

Mentre si avvicina il Summit Nato aumenta il timore che l’imprevedibilità di Trump possa acuire ancora di più le distanze tra Europa e Stati Uniti. Intanto, l’Italia del governo Conte ha trovato con la presidenza americana diversi obiettivi in comune, dall’attenzione al fianco sud al dialogo con Mosca. Eppure, mentre è ormai chiara l’adesione nel nuovo esecutivo al tradizionale euro-atlantismo, restano da chiarire alcuni aspetti più puntuali, tra cui le missioni internazionali e la partecipazione al programma F-35. Un riesame degli impegni è legittimo, ma occhio agli effetti sulla credibilità internazionale, sulle alleanze e sulle capacità che servono alle nostre Forze armate. Ne abbiamo parlato con l’ambasciatore Luca Giansanti, già direttore generale degli Affari Politici del ministero degli Esteri ed una carriera diplomatica che lo ha portato a Bruxelles, Washington e Teheran, tre luoghi oggi emblematici per i rapporti transatlantici. Se tra Europa e Stati Uniti le distanze rischiano di allungarsi, l’Iran rappresenta uno dei dossier su cui si sono create le maggiori divergenze, ben accompagnato dalla questione di Gerusalemme capitale e dai temi commerciali e climatici. Da non sottovalutare poi la questione turca e la difesa europea, con la Francia che ha già palesato le proprie ambizioni.

Ambasciatore, partendo dallo stato dei rapporti euro-atlantici, c’è chi sostiene che stiamo assistendo alla fine dell’ordine liberale. È una visione troppo allarmista?

Direi di sì, mi sembra una visione piuttosto allarmista. Ciò che è in gioco è piuttosto la fiducia di noi europei nel multilateralismo, messa alla prova da diverse iniziative del presidente Trump, dalle sfide poste al sistema Omc fino al G7. In tal senso, il prossimo vertice della Nato sarà un test per la tenuta dell’ordine internazionale liberale, ma soprattutto per la verifica dell’impegno americano a favore del sistema multilaterale.

Ritiene che ci sia il rischio che le suddette divergenze tra si estendano ai temi della sicurezza e difesa? Il Summit Nato potrebbe fare la fine del G7?

Ragioni perché ciò accada non ce ne sono. Ma certo occorre tenere conto dell’imprevedibilità di Trump, e in particolare sappiamo quanto il presidente abbia in considerazione il tema della spesa nella difesa e del burden sharing. Ciò che colpisce è che questo tema non è controverso, poiché gli Stati europei sono ben consapevoli di dover fare di più da questo punto di vista. L’esito del vertice dipenderà dunque da come verrà impostato il discorso. E su questo Trump ci ha insegnato che può essere imprevedibile, per noi come per i suoi collaboratori.

Proprio il tema del 2% del Pil da spendere in difesa potrebbe far esplodere il Summit. Come saranno assorbiti dagli europei i nuovi inviti del presidente Usa?

Gli alleati europei hanno tutti confermato l’impegno a rispettare quanto concordato nel Summit in Galles del 2014: il 2% del Pil per la spesa nella difesa; e il 20% di tale budget ai maggiori equipaggiamenti. Ciò, come detto, non è controverso, e ci siamo dati dieci anni per raggiungerlo. Siamo lontani dunque tanto dall’obiettivo quanto dalla scadenza. La tendenza, ad ogni modo, è positiva per l’Europa e per il Canada; le spese stanno crescendo. Bisogna poi tenere conto che un aumento dello 0,1% del Pil nel bilancio tedesco non è uguale a un pari incremento del Pil del Lussemburgo. Ciò descrive bene i limiti di un approccio basato esclusivamente sull’aspetto del cash; il contributo europeo non è quantificabile solo nel 2% e nel 20%. Proprio l’Italia, ad esempio, ha dimostrato di essere un security provider grazie alle capacità militari dispiegate e all’impegno nelle missioni internazionali, un contributo che il nostro Paese, e gli altri alleati europei, chiedono che venga considerato in maniera comprensiva e globale nel conto della spesa per la difesa. Non credo dunque che l’approccio che Trump sta utilizzando anche in questi ultimi giorni sia destinato a produrre risultati.

E per quanto riguarda il nostro Paese?

L’Italia rispetta da tempo il parametro del 20% in maggiori equipaggiamenti, ma è ancora sotto per quanto riguarda la quota del 2% del Pil. In questi anni uno sforzo è stato comunque fatto, e bisogna considerare che è avvenuto in anni di profonda crisi economica e finanziaria, un elemento che non si può sottovalutare. Per facilitare l’attuazione del nostro impegno ad andare oltre a questi numeri, comunque, occorre anche che la Nato sia percepita dalle opinioni politiche e pubbliche come un’Alleanza che risponda alle esigenze reali. In tal senso, l’adattamento alle nuove sfide è importante. La Nato è chiamata a dimostrarsi utile.

Ci spieghi meglio.

Non basta che l’Alleanza si dedichi solo alla deterrenza e alla difesa sul fianco est, come pure ha fatto giustamente negli ultimi anni. La minaccia da oriente è percepita fortemente da alcuni alleati, ma meno da altri, tra cui l’Italia, che sono invece più attenti alle minacce ibride e non convenzionali che riguardo il fronte sud. Tali alleati si aspettando che la Nato si attrezzi per rispondere a tali sfide e per questo è necessario uno sforzo di adattamento.

Lei ha fatto riferimento all’impegno italiano nelle missioni internazionali. Nel contratto di governo si parla di “rivalutare” tale partecipazione, anche se gli ultimi segnali dell’esecutivo indicano una linea di continuità rispetto al precedente. Considerando la difficoltà sul 2%, cosa comporterebbe ridurre la postura militare?

Che da parte della nuova maggioranza e del nuovo governo ci sia una rivalutazione e un riesame dell’impegno all’estero appare legittimo. Certo, bisogna vedere l’esito di questa operazione. L’Italia è attualmente presente in Afghanistan, dove l’impegno del nostro contingente è rimasto notevole nel tempo lì dove altri si sono ritirati. Più recentemente siamo intervenuto in Iraq, nell’ambito della coalizione contro il Daesh, in Libia e nel Mediterraneo, oltre al Libano nel contesto Onu e alle altre missioni Nato, dal Kosovo all’air policing nei Paesi baltici, passando per la forza di intervento rapido ad est e le batterie di missili in Turchia. Un riesame è legittimo, e la decisione spetta al Parlamento e al governo. Ciò riguarda in particolare l’Afghanistan, in cui il nostro contributo dura da tempo ed è rimasto anche quando abbiamo previsto un impegno finanziario a supporto delle forze di sicurezza afghane oltre a quello tipicamente militare. Certamente, auspico che per il resto l’impegno italiano rimanga quello che è, soprattutto per ciò che riguarda il Mediterraneo allargato.

Per Giuseppe Conte sarà il debutto alla Nato. Dopo l’incertezza iniziale, il governo ha ribadito la tradizionale politica estera italiana: l’euro-atlantismo. Avverrà anche al vertice?

Sì, certamente. Di recente, anche il capo dello Stato Sergio Mattarella, in visita in Estonia insieme al ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi, ha ribadito i cardini della politica estera italiana: un’Alleanza Atlantica forte e coesa; e l’impegno europeo. La linea è giusta, poi si tratta di negoziare e tutelare le posizioni e gli interessi, tenendo sempre conto che l’euro-atlantismo resta il punto di riferimento.

Il nuovo esecutivo ha chiarito anche la posizione in ambito Nato: attenzione al fianco sud e promozione del dialogo con la Russia. Questo sembra avvicinarci alla presidenza Trump. Si stanno rafforzando i rapporti tra Roma e Washington?

Sicuramente si sono concretizzate sensibilità comuni su questi due temi, e ciò è avvenuto in modo abbastanza imprevedibile sia alla vigilia del G7, sia in vista del vertice tra Trump e Putin. Tuttavia, occorre fare attenzione che le iniziative del presidente americano non dividano gli europei; e proprio il faccia a faccia con il presidente russo suscita timore per una parte degli alleati del Vecchio continente. Il burden sharing non è il solo tema potenzialmente divisivo, e bisogna evitare che Trump giochi sulle divergenze che ci sono tra gli europei, come sulla Russia, per cui la presidenza Usa ha sensibilità simili alle nostre. Ad ogni modo, l’approccio della Nato nei confronti di Mosca resta quello della deterrenza accompagnata dall’apertura al dialogo (il cosiddetto dual track, ndr). È opportuno che nel prossimo Summit il secondo aspetto venga sviluppato ulteriormente.

Ha parlato di divisioni tra gli europei. Si può annoverare tra queste l’emersione di un asse franco-tedesco che punta a guidare la nascente difesa europea, tra la Pesco e il Fondo predisposto dalla Commissione?

Onestamente non credo. La Pesco è una delle componenti della difesa comune, e punta allo sviluppo ordinato e coordinato delle capacità europee in campo militare, rappresentando così anche un contributo importante all’Alleanza. Si tratta dell’impegno degli europei a lavorare insieme, ma nella misura in cui tale esercizio sia complementare alla nato. Non è un caso che la collaborazione Nato-Ue sarà un tema importante del prossimo Summit. Per quanto riguarda Francia e Germania, non credo all’ipotesi di un asse. I due Paesi mantengono visioni spesso diverse e quello che è nato (Pesco, Card e Fondo per la difesa) è il frutto di un compromesso tra posizioni non sempre coincidenti, a cui tra l’altro hanno partecipato attivamente anche Spagna e Italia, sin dalla promozione iniziale di queste iniziative. Certamente, occorrerà evitare che lo sviluppo di tutto questo diventi una sorta di monopolio europeo sulla difesa, perché non ce n’è bisogno. Bisognerà invece mantenere il sistema aperto ai partner, agli alleati e ai Paesi terzi, a cominciare dal Regno Unito. Ciò riguarda anche i rapporti industriali.

Fa riferimento alla possibilità che accedano alle risorse del Fondo europeo per la difesa (Edf) anche aziende di Paesi terzi?

Certo. Servono modalità adeguate affinché ci sia la possibilità di coinvolgere anche altri, evitando che la difesa europea sia la mera promozione dell’industria francese, che è una delle più forti.

Restando agli aspetti industriali, come possono impattare sui rapporti con gli Stati Uniti le recenti parole del ministro Trenta sulla partecipazione italiana al programma F-35 (“Non compreremo altri F-35, stiamo valutando se mantenere o tagliare i contratti in essere”)?

Mi sembra che anche su questo tema ci troviamo in una fase di riesame e rivalutazione. Per ora, non è stata presa nessuna decisione, né è emerso un orientamento netto. Ad ogni modo, la posizione delle forze politiche che formano la maggioranza di governo sull’F-35 è risaputa. Personalmente, ritengo che gli impegni già assunti vengano rispettati su entrambi le varianti del velivolo, sia perché la partecipazione al programma ha ricadute importanti sul nostro sistema occupazionale, sia perché le nostre Forze armate hanno bisogno di tali capacità per sostituire i velivoli in uso.

Tornando al Summit Nato, un altro dossier scottante riguarda la Turchia, da tempo sempre più vicina a Mosca. La crisi tra Ankara e Washington è destinata ad acuirsi al vertice di Bruxelles?

Non credo. La membership della Turchia nella Nato è uno dei punti fermi degli ultimi anni e va preservata. Nonostante il Paese venga percepito come un partner complicato, la dinamica si è dimostrata in ogni caso gestibile nel contesto dei vertici. Perciò non vedo i presupposti per una tensione tra gli alleati e Ankara.

Tra i temi di frizione tra Europea e Stati Uniti c’è l’Iran, un Paese che lei conosce bene. Il Vecchio continente sarà in grado di reggere l’accordo nucleare senza Washington?

La volontà politica c’è, anche perché per gli europei è agevole: si tratta di rimanere fermi su scelte fatte e su opzioni acquisite da tempo. Non dimentichiamoci che è stato Trump ad allontanarsi da quanto concordato, come d’altronde sta avvenendo su un numero sempre maggiori di temi. Per gli europei la possibilità di preservare l’accordo c’è, la difficoltà è farlo in modo che non crei tensioni interne, in maniera costruttiva e non antagonista rispetto agli Usa. Il dialogo con Washington resta importante e assicura una maggiore coesione europea. Alcuni partner dell’Europa centro orientale sono infatti più sensibili di altri rispetto a quanto fatto da Trump sulla questione iraniana. Per continuare a tenerli a bordo occorre bilanciare i nostri interessi e il dialogo con gli Stati Uniti.

×

Iscriviti alla newsletter