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Verso il summit Nato. Il nodo del burden sharing e il fattore Trump

Nato stoltenberg

C’è il rischio che il prossimo Summit della Nato esploda come ha fatto il recente G7 in Canada? Gli esperti dubitano, ma certo c’è un elemento che non permette di dormire sonni tranquilli: l’imprevedibilità della presidenza americana, il cosiddetto “fattore Trump”. Per ora, nel corso della sua storia, l’Alleanza Atlantica è riuscita a isolare i temi della sicurezza e della difesa da divergenze eventualmente maturate su altri dossier, preservando una collaborazione on the ground che non ha eguali. Oggi, però, il rischio che il delicato momento dei rapporti trans-atlantici (si vedano gli attriti commerciali, la spaccatura sull’Iran o sul clima) si estenda alla Nato appare concreto, e se c’è un tema su cui l’Alleanza può incrinarsi è senza dubbio il burden sharing. Spendere il 2% del Pil nella Difesa e il 20% di questo budget in grandi equipaggiamenti entro il 2024 è un obiettivo condiviso da tutti gli alleati sin dal Summit in Galles del 2014. Da un paio di anni, tale quota è diventata tuttavia il mantra ricorrente dell’amministrazione americana, che coglie ogni occasione utile per chiedere agli alleati di assumersi maggiori responsabilità.

“UN PILASTRO PER LA PACE E LA STABILITÀ”

D’altra parte, l’Alleanza appare irrinunciabile per la sicurezza e la stabilità del Vecchio continente. Un nuovo monito è arrivato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nell’incontro a Tallin con con la presidente estone Kersti Kaljulaid. “Abbiamo concordato sull’esigenza, pienamente condivisa, di riaffermare la validità a la solidità della Nato, che costituisce uno dei pilastri della pace e della stabilità nel mondo”. La Nato e l’Unione europea, ha aggiunto Mattarella che ha parlato anche del prossimo Summit, “sono le strutture portanti della politica estera italiana; la sicurezza di ciascun Paese dell’Alleanza – ha concluso – coincide con la nostra sicurezza e con la sicurezza di tutti. Il mantenimento della sicurezza è una sfida di questa stagione storica e non può essere affrontata singolarmente da un solo Stato, ma solo con una visione comune”

LE LETTERE DI TRUMP

A mettere più di qualche preoccupazione è però proprio il tema del burden sharing. Nei giorni scorsi, in vista del Summit che l’11 e 12 luglio riunirà a Bruxelles i capi di Stato e di governo, Trump ha inviato una lettera ad alcuni alleati chiedendo di aumentare le spese per la difesa. Tra i destinatari, anche il primo ministro della Norvegia Erna Solberg, a cui il presidente americano ha ricordato che il Paese nordico “rimane il solo alleato Nato a condividere un confine con la Russia senza un piano credibile per spendere il 2% del Pil in Difesa”. In una simile missiva al Belgio, Trump ha detto che “diventa sempre più difficile giustificare ai cittadini americani perché alcuni Paesi continuino a fallire nel rispettare gli impegni condivisi di sicurezza collettiva”. Le risposte non si sono fatte attendere. Per Oslo, è intervenuto il ministro della Difesa Frank Bakke-Jensen, che (via Associated Press) ha ricordato che “la Norvegia rispetta la decisione presa al Summit Nato nel 2014”. Più piccata è sembrata la reazione del primo ministro belga Charles Michel: “Non sono troppo intimidito da questo tipo di mail”, ha detto a margine del recente Consiglio europeo. Le lettere di Trump, ha aggiunto Michel, sono “tipiche” dei momenti che precedono un importante vertice come il Summit di Bruxelles”.

I DUE LIVELLI DEL BURDEN SHARING

La questione sembra muoversi su un doppio binario. Il primo, in realtà marginale, riguarda l’interpretazione legale degli impegni definiti in Galles. “Potete chiedere a dieci avvocati un’interpretazione legale del documento e avrete, immagino, dieci interpretazioni differenti”, ha detto lo scorso mese il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg. “Non è un documento legale – ha comunque chiarito il numero uno dell’Alleanza – ma un documento politico con impegni politici”. Da qui, il secondo binario, tutto politico. Il tema del burden sharing è una questione antica, che risale alle origini stesse dall’Alleanza, ma che negli ultimi anni, in coincidenza con l’intenzione americana di arretrare la propria postura, si è fatto più scottante. Già l’amministrazione Obama aveva chiesto agli alleati di fare di più, anche se Trump è riuscito a caricare il tema di una forte retorica politica, rendendolo il dossier principale dell’Alleanza. Da qui, il rischio che sulla questione del 2% il Summit possa rompersi, un’eventualità che appare ancora remota (data la tenuta storica della Nato a prescindere da altre divergenze) ma che comunque non lascia tranquilli visti gli esiti del recente G7 in Canada. “Non c’è dubbio che il presidente Trump chiederà nuovamente agli alleati di spendere il 2% del Pil”, ha detto il generale John Allen, presidente del Brooking Institution in un’intervista esclusiva a Formiche. “Spero che ponga il tema con forza – ha aggiunto – ma al tempo stesso auguro che dal Summit possa uscire un messaggio chiaro: la Nato e l’Europa non sono importanti per gli Stati Uniti, sono vitali. Se dall’incontro emergerà questo messaggio tutti gli alleati potranno tirare un sospiro di sollievo”.

LA QUESTIONE TEDESCA

Eppure, il treno che percorre il binario politico del burden sharing sembra destinato a travolgere la Germania, bersaglio preferito delle punzecchiature del presidente Usa sul tema. Che tra Trump e Merkel non ci sia grande simpatia è evidente, ma in realtà le ragioni delle insofferenze americane sembrano più profonde. Alle questione del 2% si sommano infatti le divergenze relative alle politiche commerciali, su cui Berlino e Washington sembrano non essere mai state così lontani. “La Germania è la maggiore economia europea e la più grande dell’Alleanza dopo gli Stati Uniti, un’economia in salute con un forte surplus di bilancio; quando si sommano queste cose con quello che la Germania sta facendo rispetto a quote concordate, e non imposte (…) il Paese appare under performed”, ci ha spiegato Douglas Lute, rappresentante permanente degli Stati Uniti alla Nato dal 2013 al 2017. Berlino spende circa l’1,24% del proprio Pil per la Difesa, mentre destinata il 14% di questo budget all’acquisto di grandi equipaggiamenti (rispetto a un obiettivo del 20% definito anch’esso in Galles, che l’Italia invece ha raggiunto da tempo, nonostante più lontana dal 2%).

LE DIVERGENZE TRA WASHINGTON E BERLINO

Stando ai numeri, comunque, la questione non sarebbe divisiva, poiché gli stessi leader tedeschi hanno più volte ribadito l’esigenza di spendere di più per la difesa, considerando anche che le Forze armate di Germania sembrano ben lontane dai livelli di efficienza dei maggiori alleati. Il nuovo endorsement è arrivato proprio oggi da Angela Merkel, che al Bundestag (in un intervento che è sembrato voler placare gli inviti americani in vista del Summit) ha definito “neanche lontanamente sufficienti” i 38,9 miliardi di euro che la Germania stanzia per la Difesa, ribadendo l’impegno ad arrivare all’1,5% del Pil entro il 2024 (secondo gli analisti, si tratterebbe di circa 60 miliardi di euro). Il problema tra Washington e Berlino emerge poiché il mancato rispetto degli impegni è stato pesantemente politicizzato da Trump, forse nell’intenzione (sostengono i più maliziosi) di creare dei problemi alla cancelliera sul fronte interno, che avrebbe difficoltà a giustificare un aumento del budget per la Difesa solo perché richiesto con insistenza da Washington. Da parte sue, Trump persegue “la componente tipicamente business like, che guarda alla bottom line economica e, in definitiva, al soldo”, ha detto ad Airpress Alessandro Politi, direttore della Nato Defense College Foundation. “Dal loro punto di vista – ha aggiunto – i tedeschi devono spendere di più perché hanno i vantaggi commerciali, perché esportano e hanno il surplus”.

I NUMERI

Ad ogni modo, se si guarda ai numeri (e questo vale anche per l’Italia) la ragione sembra propendere verso gli Stati Uniti, che rappresentano il 51,1% del Pil totale dell’Alleanza e coprono ben il 71,7% delle spesa destinate alla difesa. Washington spende circa il 3,6% del Pil nella Difesa, con percentuali che si prevedono in forte aumento nei prossimi anni grazie all’input consistente che Trump ha dato al budget per la difesa (700 miliardi nel 2018 e 716 attesi per il 2019). Ad ogni modo, secondo l’ultimo rapporto annuale del segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, nel 2017 la spesa per la difesa di Europa e Canada è aumentata del 4,7% rispetto al 2016, con un trend che si confermerà positivo anche quest’anno. A livello generale, la spesa dell’Alleanza si aggira intorno all’1,45% del Pil complessivo, sotto al 2% ma comunque molto al di sopra dei numeri del 2014. Quattro Paesi, oltre agli Usa, hanno già raggiunto l’obiettivo del 2%: Grecia, Regno Unito, Estonia e Polonia. Nel 2018 il numero salirà a otto, grazie al fatto che Francia, Lettonia, Lituania e Norvegia si stanno già avvicinando al traguardo con percentuali superiori al’1,5%.

IL FATTORE TRUMP

“La Nato dispone in realtà di un trend abbastanza incoraggiante da mettere sul tavolo: dal 2014 in poi, la spesa complessiva europea è aumentata”, ha notato Marta Dassù, senior director per gli Affari europei dell’Aspen Institute e direttore di Aspenia. “Bisogna vedere – ha aggiunto l’esperta – se il presidente americano vorrà guardare il bicchiere mezzo pieno (il trend generale è cambiato) o mezzo vuoto”. In altre parole, resta aperto e imprevedibile l’ormai noto “fattore Trump”, capace di sconvolgere appuntamenti internazionali cambiando all’ultimo dichiarazioni e documenti preparati nel corso dei mesi precedenti. Dalla sua creazione, la Nato è riuscita a isolare il fronte trans-atlantico sui temi della sicurezza e della difesa, preservando i rapporti tra le due sponde dell’oceano anche quando emergevano frizioni su altri dossier. Tra pochi giorni, l’Alleanza è chiamata a fare lo stesso, forse nel momento più delicato delle relazioni transatlantiche e con un elemento del tutto nuovo: l’imprevedibilità della presidenza americana.

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