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Hacker anti Dem, Roger Stone, Steve Bannon e l’Fbi. Tutte le “coincidenze”

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Una annotazione importante su quanto contenuto nel report uscito venerdì con cui lo special counsel che sta indagando il Russiagate ha incriminato 12 agenti del servizio segreto militare russo (Gru) per l’interfenza durante le presidenziali americane del 2016, riguarda il riferimento a “una persona regolarmente in contatto con membri importanti del comitato elettorale di Trump” che avrebbe più volte parlato con quel Guccifer 2.0.

Ossia con quella che pare essere l’identità di un fantomatico hacker romeno che poi consegnò i dati a WkiLeaks, dietro a cui si nascondeva parte del piano del Gru, secondo l‘inchiesta (da venerdì c’è anche un nome: del piano di occupò l’unità 26165, con base a Mosca, sotto il comando dell’ufficiale Viktor Borisovich Netyksho). L’accusa, annunciata pubblicamente da Rod Rosenstein, vice segretario alla Giustizia, e motivata in 29 pagine firmate dal procuratore speciale che si sta occupando dell’interferenza russa, Robert Mueller, ruota attorno alla violazione informatica, che (è noto) ha aperto spazi per una serie di storie alterate, molte completamente inventate, che diffondendosi su internet hanno modificato la percezione dell’opinione pubblica, contribuendo alla sconfitta di Clinton (e alla vittoria dell’attuale presidente Donald Trump, che ovviamente è legata solo in parte al piano russo).

Il contatto di Guccifer 2.0 con uomini della campagna Trump è un pezzo fondamentale del Russiagate, le eventuali collusioni del repubblicano: per il momento non ci sono accuse formali, i media americani individuano in via non ufficiale quella persona in Roger Stone, consigliere elettorale di Trump e storico stratega repubblicano, che ha ammesso tempo fa di aver avuto contatti con gli hacker, ma ha detto di non sapere che erano parte del piano governativo russo.

A questo punto pare piuttosto interessante un articolo scritto da Stone per Breitbart, sito proto-trumpista fondato e attualmente diretto da Steve Bannon, che però nel momento in cui il pezzo di Stone andava online occupava il ruolo di capo della strategia politica di Trump.

Era l’agosto 2016, secondo il report di Mueller Stone era in contatto con Guccifer 2.0, e dunque col Gru russo, ma lui sul sito di Bannon scriveva che gli attacchi hacker che avevano sottratto migliaia di mail al DNC (il Comitato nazionale dei democratici), al DCCC (il Comitato democratico che supporta i candidati al parlamento), e alla campagna elettorale di Hillary Clinton, erano un’azione di un pirata solitario e che la storia della Russia era tutta un’invenzione sella Clinton.

La candidata democratica, in difficoltà nella corsa elettorale, aveva, secondo Stone, scelto di fare la “vittima”: una persona che viola i server del Dnc non vale granché tra gli elettori, spiegava, e allora aveva giocato la carta Russia; “Incolpare i russi! La colpa di Putin! La colpa di Trump!“. Per giustificare quel che scrive, Stone faceva una dettagliata analisi su quanto accaduto e sul ruolo di Guccifer come persona, giocava sul “buon senso” del dire “è stato lui” e sul progetto maligno con cui democratici che accusavano la Russia e Trump per coprire le proprie magagne e vincere le elezioni.

Per sostenere la sua tesi tirava in ballo anche un accademico di storia e politica russa, Stephen Cohen, noto per le sue tendenze russofile. Stone citava Cohen, che parlava di “Obama e Clinton hanno iniziato una nuova guerra fredda con la Russia. Puoi vederlo in posti come la Siria e l’Ucraina”, ma c’è “un potenziale punto luminoso, quello che i media non vogliono ammettere”, ossia la vittoria di Trump e la riapertura dei contatti.

Interessanti certi allineamenti da leggere a un giorno di distanza dall’importante incontro che il presidente americano terrà a Helsinki con il suo collega russo, Vladimir Putin. Trump ha annunciato di voler chiedere conto di quanto successo nel 2016, ma ha anche fatto capire (e già lo aveva fatto in passato) di fidarsi, tendenzialmente, delle parole del russo, che continua a sostenere (chiaramente) la linea d’innocenza battuta da Mosca, aggiungendo che quanto è successo è frutto dello scontro politico interno negli Stati Uniti

Invece l’Intelligence Community americana da tempo ha individuato nelle agenzie collegate ai servizi di spionaggio russo i responsabili di certi attacchi e di tutto il fango contro Hillary che si sono portati dietri – contribuendo nel deteriore l’immagine pubblica della democratica, che già non era particolarmente apprezzata da diversi gruppi di elettori (tra i documenti rubati ce n’erano alcuni che descriveva per esempio come Hillary era riuscita a vincere lo scontro all’interno dei democratici con le anime più leftist, come Bernie Sanders).

Trump ha anche detto che sebbene ne parleranno lui e Putin, di sicuro non uscirà da quel faccia a faccia con qualcosa di concreto: “Non penso che avremo nessun Oh cavolo, sì sono stato io, mi hai beccato‘ “, niente “scene alla Perry Mason”, ha ironizzato il presidente durante la conferenza stampa congiunta con la premier britannica Theresa May.

Altro aspetto interessante: Stone accusava Clinton di aver inventato l’hacking russo per coprire l’inchiesta con cui l’Fbi voleva far luce sul cosiddetto Emailgate. Secondo gli inquirenti americani un attacco informatico russo c’è stato il 27 luglio, ossia nell’esatto giorno in cui Trump pubblicamente chiese alla Russia di rintracciare le mail che, secondo un’indagine ai tempi in corso, Clinton aveva fatto passare sul suo server privato – invece di usarne uno governativo – quando ricopriva l’incarico di segretario di Stato e che non aveva ancora consegnato all’Fbi che le stava analizzando per trovare eventuali irregolarità. Quell’inchiesta si chiuse con un pugno di mosche, ma fu un altro pezzo del puzzle articolato che contribuì a far perdere la democratica. Trump durante un comizio elettorale disse: “Russia, se stai ascoltando, spero tu possa trovare le 30mila email mancanti”, tra gli applausi dei suoi fan.

 

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