I più critici la definiscono una vendetta dai tratti totalitari, che nasconde legami non ancora chiari tra il presidente e il Cremlino. Altri, meno drammatici nei toni ma altrettanto duri nella sostanza, la paragonano a qualche puntata di serie tv di (fanta)politica, come le seguitissime House of Cards e Homeland. Comunque la si veda, l’onda dello tsunami che ha seguito l’incontro tra Donald Trump e Vladimir Putin non si è ancora fermata e sta di nuovo agitando le acque di Washington.
CHE COSA STA SUCCEDENDO
Al centro della polemica, questa volta, c’è la decisione del presidente Usa di stilare una specie di “lista nera” all’interno della quale sarebbero confluiti i nomi di sei influenti funzionari americani ‘rei’ di avere criticato la sua retorica e le sue azioni verso la Mosca.
L’ANNUNCIO DELLA CASA BIANCA
Ad anticipare la mossa – per il momento solo una minaccia – è stata Sarah Huckabee Sanders, portavoce della Casa Bianca, secondo la quale alcune persone hanno “politicizzato e in alcuni casi monetizzato il loro nulla osta di sicurezza” e hanno lanciato “accuse infondate” contro il capo di Stato americano.
I NOMI COINVOLTI
I nomi coinvolti sono tutti di grandissimo peso (alcuni hanno prestato servizio anche durante l’amministrazione Obama ma sono legati ad ambienti repubblicani). Si tratta dell’ex direttore della Cia, John Brennan; del direttore dell’Fbi licenziato da Trump nel maggio 2017, James Comey; dell’ex direttore della National Intelligence, James Clapper, e quello della National Security Agency (e della Cia), Michael Hayden. Ma tra gli ex altissimi funzionari a cui Trump potrebbe togliere la cosiddetta “security clearance” ci sono anche Susan Rice, ex ambasciatrice all’Onu, e l’ex vice direttore dell’Fbi, Andrew McCabe.
LE REAZIONI
Come è accaduto spesso in precedenza, le intenzioni del presidente Usa hanno spaccato politica e opinione pubblica. Una delle personalità tirate in ballo, il generale Michael Hayden, ha sottolineato: “Non rinuncio ai briefing riservati. Non avranno alcun effetto su ciò che dico o scrivo”. Comey, ha replicato caustico: “Fate un elenco di tutte le figure pubbliche in questo Paese e in tutto il mondo che l’attuale presidente ha criticato. Chiedetevi: “Perché Putin è scomparso dalla lista? Nessun americano responsabile dovrebbe mai smettere di chiedere: “Perché?”. Duro, naturalmente, anche il commento quasi unanime dell’opposizione democratica (e di parte della maggioranza) che parla di ritorsione politica e, in alcuni casi, di un esempio di “totalitarismo”.
Ad appoggiare la linea della Casa Bianca c’è invece il senatore del Gop Rand Paul, che ha anzi sollecitato Trump a revocare il nulla osta di sicurezza (e quindi l’accesso alle informazioni riservate) di Brennan, perché a suo dire lo avrebbe usato per guadagnare denaro come opinionista televisivo. Tuttavia, anche dal punto di vista puramente tecnico e procedurale non tutto sembra convincere. L’avvocato Greg Rinckey, specializzato in casi di sicurezza nazionale e di nulla osta di sicurezza, ha affermato ad Associated Press che mentre i presidenti hanno ampia autorità per concedere autorizzazioni, c’è “qualche discussione sul fatto che abbiano o meno l’autorità di revocarli”. Non sembrano esserci precedenti di questo tipo da valutare. E anche John Berry, un altro legale che regolarmente rappresenta i dipendenti delle agenzie di intelligence federali, ha detto ad AP che non vede alcuna ragione per cui il presidente non possa revocare un’autorizzazione, ma che ciò “sarebbe terribile per l’America” e porterebbe a una sconfitta per la “difesa della sicurezza nazionale”, perché innesterebbe un elemento politico in un processo altrimenti bipartisan, che ne uscirebbe fortemente indebolito.
L’ESCALATION
Gli attriti tra la Casa Bianca e gli apparati di sicurezza nazionale durano da mesi, ma hanno raggiunto il loro culmine subito dopo il bilaterale tra Putin e Trump. Dopo le generose aperture del presidente Usa al Cremlino che gli sono costate anche l’accusa di “tradimento”, l’intelligence e il mondo della sicurezza americani sono insorti contro il capo di Stato come mai in precedenza.
Dopo il meeting, Putin si era detto disposto a collaborare con gli Stati Uniti nell’inchiesta sulle ingerenze russe nelle elezioni americane del 2016. “Se Mueller (il procuratore speciale che guida l’indagine) ci invierà le richieste per interrogare i sospetti, la Russia li interrogherà”, aveva sottolineato il capo del Cremlino, negando ogni accusa ma invitando i funzionari americani ad andare in Russia per collaborare con le autorità del Paese sulla questione. “Ci sono state accuse che non hanno un fondo di verità, dobbiamo farci guidare dai fatti non dalle speculazioni”, aveva rimarcato, aggiungendo che “analizzerà la situazione” sulla possibilità di estradizione delle 12 spie accusate di interferenze nelle presidenziali.
Poche ore prima Dan Coats, il potente capo della National Intelligence, l’organismo che coordina le 16 diverse agenzie che compongono l’intelligence community americana, aveva lanciato un allarme definendo i cyber attacchi di Mosca come una minaccia da “allarme rosso”, una situazione paragonata ai mesi precedenti all’11 settembre.
Le parole dell’altissimo funzionario non hanno però fatto presa su Trump, che alla domanda di un giornalista (“Lei crede a Putin o all’intelligence statunitense?”), Trump ha risposto: “Ho grande fiducia nella mia intelligence”, ma Putin “è stato estremamente deciso e potente nel negare” l’ingerenza russa. “Ho fiducia in entrambe le parti”. Frasi che hanno scioccato l’opinione pubblica e l’establishment americani, innescando una lunghissima serie di dichiarazioni critiche provenienti tanto dal fronte democratico, quanto da quello repubblicano (sia alla Camera sia al Senato). Gli attacchi più forti sono però giunti da ex di peso, tra i quali proprio Comey e Brennan. Trump fu costretto subito dopo a ritrattare, dicendo di essere stato frainteso e che mai aveva pensato di collaborare con Mosca. Un dietrofont forzato che, vista la reazione, la Casa Bianca non deve aver proprio digerito.