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La Cina alla conquista dei porti. L’Italia come la Grecia?

Non solo debito. Fra i tanti dossier sul tavolo della missione cinese di Giovanni Tria ce n’è uno particolarmente ingombrante: la Belt and Road Initiative. Così è chiamato il progetto infrastrutturale della Nuova Via della Seta con cui la Cina di Xi vuole unire Asia, Europa, Medio Oriente e Africa. Una vera bandiera in politica estera per Xi, che trova nello Stivale un tassello cruciale. Lo ha ribadito alla vigilia della partenza della delegazione italiana l’ambasciatore cinese in Italia Li Ruiyu in un’intervista all’Agi: “L’Italia e la Cina sono rispettivamente il punto di partenza e quello di arrivo dell’antica Via della Seta”. Il mastodontico piano di investimenti cinesi costituisce senza dubbio un’occasione ghiotta per le imprese italiane. Basti pensare che i 70 Paesi aderenti alla BRI assorbono il 27% dell’export italiano nel mondo. Oppure, leggiamo sul sito della Farnesina, che il 40% delle commesse di tutte le aziende italiane nel mondo (36,6 mld ca) è concentrato nelle infrastrutture di 40 Stati aderenti alla BRI. L’Italia è oggi il quinto partner commerciale di Pechino ed è socio fondatore e quarto azionista europeo dell’Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB), la banca operativa dal maggio 2016 che, assieme al Silk Road Fund da 40 miliardi, sosterrà con una dotazione di 100 miliardi di dollari le infrastrutture e l’industria manifatturiera dei Paesi interessati. È comprensibile dunque perché il dossier sia discusso durante la visita della delegazione italiana a Pechino e Shanghai.

TRIESTE: LA CODA ITALIANA DEL DRAGONE

Tra i punti di maggior interesse per il governo cinese nell’ambito del progetto Obor (One Belt One Road) rientrano alcuni dei più importanti porti italiani. Uno dei pilastri della via marittima (Road) che i cinesi vogliono mettere in piedi consiste infatti nell’acquisizione, parziale o totale, dei porti di transito. Negli ultimi dieci anni il governo cinese ha acquistato quote consistenti di importanti porti europei: Rotterdam, Marsiglia, il Pireo, Vado Ligure, Valencia per citarne solo alcuni. Oggi gli occhi della Città Proibita sono fissi su un porto italiano di grande valore strategico: Trieste. La posizione geografica ne fa uno snodo centrale della rotta mercantile che parte dalla Cina Meridionale, solca l’Oceano Indiano ed entra nel Mediterraneo attraverso il Canale di Suez. I primi contatti, ha spiegato Ruiyu all’Agi, sono già partiti: “A partire dallo scorso anno, il presidente di Assoporti e il Presidente dell’Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Orientale, Zeno D’agostino, ha fatto visita due volte in Cina. Ha incontrato i rappresentanti della China Communications Construction e di altre aziende cinesi, aprendo un confronto in merito alle infrastrutture portuali e alla cooperazione. La Cina ha a sua volta organizzato delle missioni di studio presso il Porto di Trieste”. In gioco c’è un ammodernamento tecnologico con cui gli investimenti potrebbero far tornare Trieste (e così anche altri porti finiti nel mirino dei cinesi come Gioia Tauro, Augusta, Taranto) un grande hub per le rotte commerciali asiatiche. Vantaggi e pericoli vanno però soppesati con estrema attenzione. Il caso del porto del Pireo lo ricorda con sufficiente chiarezza.

Il CASO: IL PORTO DEL PIREO

Un paper di giugno del Bruegel mette a fuoco l’operazione plurimiliardaria con cui la cinese  Cosco (China Ocean Shipping Company) ha acquistato il 67% della quota del porto greco del Pireo, un hub famoso tanto per la sua storia quanto per la sua posizione strategica nel Mediterraneo. Da quando i cinesi hanno preso il controllo del porto il Pireo ha sperimentato “una crescita senza precedenti grazie alle nuove tecnologie e il miglioramento delle infrastrutture””. I numeri parlano chiaro: in sei anni il traffico è aumentato del 300%, facendo del Pireo uno dei porti più trafficati d’Europa e un serio competitor di giganti del Nord Europa come Rotterdam. Di più: aziende come Hyundai, Sony e Hewlett Packard (HW), si legge nel report, hanno voluto trasferire i loro centri logistici per la distribuzione nel porto greco in mano ai cinesi. Una crescita che ha dell’incredibile, ma che, come sempre quando si parla di Cina,è molto lontana da un free-lunch. Il massiccio investimento cinese nel più grande porto greco ha infatti confermato il timore, diffuso anche fra i Paesi aderenti, che la Belt and Road Initiative nasconda un progetto di influenza politica che poco ha a che vedere con la ratio economica. Per dirne una, solo un anno dopo la cessione definitiva del Pireo a Cosco, il governo greco di Alexis Tsipras è stato l’unico Stato a porre il veto alle Nazioni Unite sulla condanna dell’Ue per le violazioni dei diritti umani in Cina. E ora la chinese connection greca è una realtà con cui Bruxelles dovrà fare i conti. L’ultima puntata questo martedì, quando il ministro degli Esteri greco Nikos Kotzias e l’omologo cinese Wang Yi hanno siglato a Pechino un memorandum d’intesa sulla BRI. Il governo greco, definito da Yi “un partner naturale” della Cina, ha poi firmato un accordo di cooperazione culturale con l’Accademia cinese delle scienze sociali.

IL DISEGNO DI LEGGE UE

Da mesi ormai alcuni leader europei chiedono chiarezza sul disegno politico sotteso alla Belt and Road Initiative. Fra gli altri hanno preso una dura posizione il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker, il presidente francese Emmanuel Macron e la cancelliera tedesca Angela Merkel. Oggi l’Europa è pronta a passare al contrattacco, munendosi di un meccanismo di screening degli investimenti diretti esteri. La proposta, approvata in Consiglio lo scorso giugno, prenderà forma, veti permettendo, in un regolamento che vieta gli investimenti nelle infrastrutture critiche da parte di grandi aziende finanziate in parte o in tutto dallo Stato. Il riferimento al dragone manca, ma è poco più di una formalità. L’Italia farebbe bene a ricordarselo.

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