La cerimonia a Basovizza del presidente italiano insieme a quello sloveno è stata politicamente importante ma anche toccante per quanti hanno vissuto a metà tra lo spazio italiano e quello balcanico.
Tra loro vi è il sottoscritto che, nato nell’allora Jugoslavia, è cresciuto bilingue italo-croato, a suo agio in entrambe le culture di riferimento familiare.
Interrogandosi più volte sul motivo del quieto coesistere di due metà cosi differenti e con un passato di rapporti non facili – è giunto alla conclusione che ciò è dovuto al fatto che egli provenga da realtà territoriali tra loro non confinanti.
Questo ha evitato una contrapposizione diretta e frontale delle due metà e il doloroso imbarazzo di doversi necessariamente schierare da una parte, rinnegando l’altra.
O – peggio – escluderle entrambe nel tentativo di collocarsi in una comoda posizione di equidistanza, spesso spacciata per imparzialità.
Per inciso, “non parteggiare” a priori è condizione imprescindibile per un’analisi oggettiva ma non va confuso con il trincerarsi dietro al comodo argomento di non esprimere mai un giudizio su chi abbia (maggiore) torto o ragione.
Al di là delle belle emozioni che ha suscitato vedere Sergio Mattarella e Borut Pahor mano nella mano oltre divisioni e diffidenze del passato, è bene riflettere sullo stato delle relazioni tra l’Italia e i Balcani, in particolare dopo la fine della Jugoslavia.
Soprattutto per sgomberare il campo dei ricorrenti timori politici slavi di un’ipotesi reale di ritorno del revanscismo territoriale italiano, ma anche per comprendere perché essi persistano ad est di Trieste.
Sul versante croato e sloveno la ricorrenza della Giornata del Ricordo o di simili appuntamenti (inaugurazioni di monumenti, conferenze etc.) è spesso seguita con attenzione mista a preoccupazione, con immediate casse di risonanza nella rispettiva politica, nei media e nell’accademia.
Alle provocazioni di esigue minoranze italiane che accompagnano questi eventi viene data grande visibilità mentre dichiarazioni di marginali esponenti politici regionali sono rilanciate con grande enfasi sui media slavi, come fossero espressione diretta del policy making a Roma.
Dopo l’ingresso nella UE di Slovenia (2004) e Croazia (2013), avvenuto con il fondamentale placet italiano, sono polemiche andate calando, riconducibili a motivazioni politiche interne che non lasciano strascichi diplomatici di rilievo né tensioni nel comune sentire popolare.
Infatti il dato storico centrale è che i rapporti politici e istituzionali tra l’Italia e tutte le nuove Repubbliche dei Balcani Occidentali sono andati migliorando nei recenti decenni.
Si fatica a trovare negli ultimi 25 anni notizia di incidenti diplomatici seri tra Italia e Slovenia o Croazia (i due paesi che hanno ereditato gli accordi di Osimo) per non dire di Serbia, Montenegro, Bosnia ed Erzegovina, Macedonia del Nord e, più recentemente, Kosovo.
L’Italia ha parlato con i Balcani per bocca del suo centro puntando ad affermarsi come potenza commerciale, senza ambizioni politiche di cui eventuali rivendicazioni territoriali sarebbero il principale indicatore.
La familiarità e conoscenza del contesto slavo in Italia è rimasta isolata ai suoi territori del Nord-Est e non ha fatto parte del necessario bagaglio tecnico del Deep State dell’alta funzione pubblica dominante a Roma, peraltro popolata in larga parte da personale proveniente da territori italiani estranei e disinteressati al mondo slavo.
L’attenzione italiana è stata rivolta a mercati nuovi alle porte di casa, percepiti come terreno di facile penetrazione, cui è seguito il solito reticolo di imprenditorialità in ordine sparso, con singole monadi attive in modo gelosamente autonomo e con back-up politico-istituzionali occasionali e su base clientelare.
Inoltre, dalla stagione di Mani Pulite e dalla nascita della Seconda Repubblica le questioni internazionali sono passate in secondo piano nel sistema politico italiano a tutto vantaggio delle vicende di politica interna.
In un tale contesto non vi è stato reale interesse a Roma per porre al centro del dibattito la revisione dei trattati di Osimo, in particolare là dove si riferiscono alla suddivisione territoriale.
Il tema è mancato dai principali media italiani – né ha avuto attori politici di rilievo che ne siano stati portatori, circostanza vissuta con frustrazione dalle comunità italiane di esuli, sentitesi abbandonate nelle loro rivendicazioni che, per inciso, riguardano oramai solo l’aspetto delle compensazioni.
Per la maggior parte degli italiani ad oggi i Balcani sono meta di vacanze estive, visitati con stupore misto ad ignoranza della storia e delle tradizioni ed il sentimento popolare resta lontano dalla questione istriana.
Anche l’introduzione della stessa Giornata del Ricordo è stata più operazione tardiva e decisa dall’alto; un imbarazzato correre al riparo istituzionale per il silenzio ideologico dei decenni precedenti, che ha trovato disinformata e lasciato distratta l’opinione pubblica, troppo a lungo non sensibilizzata sul tema.
Sul versante balcanico, va detto che in tutte le nuove Repubbliche post-Jugoslave l’Italia ha goduto di un orientamento popolare diffuso dal basso di ammirazione “de-politicizzata” verso il lifestyle italiano e il Made in Italy anche se il tema delle questioni lasciate aperte nei rapporti italo-sloveni ed italo-croati resta ancora questione politica più temuta a Ljubljana e Zagabria che a Roma.
Il punto è che il motivo principale di questa diffidenza slava nei confronti italiani è da ricercare nei nuovi equilibri geo-politici dell’area piuttosto che nella travagliata storia delle relazioni italo-balcaniche.
Con la dissoluzione della Jugoslavia, l’Italia è diventata suo malgrado un vicino molto più ingombrante sia per la sua dimensione che per il suo potenziale commerciale e culturale, nonché per la disposizione asimmetrica delle minoranze nei tre paesi (quelle italiane in Slovenia e Croazia sono più numerose di quelle croate e slovene in Italia).
Nel nuovo dis-ordine mondiale, con aree di influenza che si sviluppano lungo nuovi vettori (si veda l’impatto del doppio passaporto tra Stati confinanti) – il rischio per Paesi di dimensioni ed economie minori è di subire de facto influenze dai vicini più grandi, tali da condizionarne la sovranità.
È una situazione ricorrente in particolare nell’Est Europa, dove nuovi confini sono nati da disgregazioni post-belliche e\o post-sovietiche.
In questa dinamica geo-politica, più che nel quadro di un improbabile ritorno di mire revansciste territoriali, va inquadrata la crescente presenza italiana (si badi, non necessariamente dell’Italia) nell’area Balcanica. Essa può a volte risultare strabordante ed invadente, anche in assenza di una reale strategia politica di Roma in tal senso.
Come un elefante che nel girarsi su se stesso corre il rischio, anche senza volere, di schiacciare qualcuno più piccolo nei paraggi.