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Missioni internazionali. Ecco le cinque proposte di Marrone (Iai)

Pubblichiamo il testo dell’intervento di Alessandro Marrone, responsabile Difesa dell’Istituto Affari Internazionali, in audizione alla commissione Esteri e Difesa del Senato sulla partecipazione dell’Italia alle missioni internazionali

Il mio intervento tratterà cinque punti rilevanti per l’approccio dell’Italia alle missioni all’estero, e in particolare il processo decisionale per il loro avvio o rinnovo e quindi il disegno di legge in oggetto. Primo: accelerazione delle crisi. Secondo: bilateralismo nel Mediterraneo allargato. Terzo: azioni europee rapide e incisive. Quarto: prontezza a scossoni nella Nato. Quinto: ritorno degli investimenti.

Uno: accelerazione, fluidità e imprevedibilità di tensioni e crisi

Che il quadro strategico sia sempre più incerto e instabile è ribadito in diversi documenti Nato, UE, e italiani, e va considerato quindi un dato acquisito. Partendo da questo dato, occorre però sottolineare come sia aumentato il tasso di imprevedibilità e accelerazione di tensioni e crisi, che possono prendere diverse direzioni in modo estremamente fluido, spiazzano e sorprendono.

L’attacco di Hamas il 7 ottobre 2023 ha sorpreso Israele; la portata della risposta israeliana ha sorpreso gli Stati Uniti; e gli attacchi Houthi nel Mar Rosso hanno sorpreso la comunità internazionale, che ha reagito con le missioni Prosperity Guardian e Aspides.

Nel complesso, il quadro strategico è ben peggiore del 2016, quando l’Italia ha normato il procedimento di autorizzazione delle missioni all’estero con la legge n. 145.  È quindi necessario e opportuno migliorare questo procedimento per mettere in grado l’Italia di rispondere più efficacemente all’imprevedibilità, accelerazioni e fluidità di tensioni e crisi.

Ad esempio, l’articolo 1 del disegno di legge che introduce una maggior flessibilità nell’utilizzo degli assetti e delle unità di personale, all’interno di missioni appartenenti alla medesima area geografica, va in questa direzione. Potrebbe avvenire ad esempio nei Balcani tra Kosovo e Bosnia, sul fianco orientale Nato, in Iraq tra la missione nazionale e quella Nato cui partecipa l’Italia, piuttosto che nel Sahel.

Due: crescente bilateralismo nella regione del Mediterraneo allargato

L’Italia ormai già diversi anni ha sviluppato una originale e coerente visione dello spazio geopolitico cosiddetto del Mediterraneo allargato.  Una regione che comprende Europea continentale, Nord Africa, Sahel, Corno d’africa, Medio Oriente fino al Mar Nero. Certamente uno spazio eterogeneo e complesso, dove però le interconnessioni demografiche, energetiche, economiche e di sicurezza sono tali da legare Paesi e regioni diversi, e da far sì che crisi locali abbiamo impatti regionali. La Strategia di sicurezza e difesa per il Mediterraneo adottata dal Ministero della Difesa nel 2022 rende molto bene questo concetto.

Ecco questa regione rappresenta l’area prioritaria di intervento delle forze armate italiane a protezione e promozione degli interessi nazionali del Paese.

A differenza dell’area euro-atlantica completamente ricompresa nell’ombrello di sicurezza Nato, quest’area non vede una cornice regionale di sicurezza forte. Né la Lega Araba né l’Unione Africana assolvono a questo ruolo, e l’Ue o la Nato sono – e sono percepiti – come attori esterni. La regione è quindi il regno del bilateralismo, delle alleanze a geometria variabile e dei cambi di allineamento. Basti pensare ai Paesi arabi che stavano allacciando partnership con Israele, o al ruolo che gioca la Turchia su più tavoli.

Di fronte a ciò, giustamente l’Italia nell’ultimo decennio ha aumentato il numero, importanza e consistenza delle missioni bilaterali, ad esempio in Libano, Libia, Niger e Somalia. Gestire una missione bilaterale mette tutta la responsabilità politica e militare sulle spalle dell’Italia, senza la cornice fornita da Onu, Nato, Ue, o da coalizioni ad hoc come quelle operante negli Stretti di Hormuz con la missione Agenor. Tale responsabilità richiede un approccio mirato rispetto al partner, la flessibilità di far evolvere la missione in termini qualitativi e quantitativi, e la tempestività nell’attuare gli accordi e passare dalle parole ai fatti. Di nuovo, un motivo a favore di un aggiustamento del processo di autorizzazione delle missioni, che lo renda più snello, efficiente e rapido.

Tre: opportunità e necessità di azioni europee rapide e incisive

Fermo restando il suddetto bilateralismo, l’Ue può e deve giocare un ruolo più incisivo per la sicurezza e stabilità regionale. Anche perché la Nato è quasi totalmente concentrata sulla minaccia russa ad est, e non ci sono le condizioni politico-militari nell’alleanza per azioni significative sul fianco sud, a parte il proseguimento di missioni già avviate da anni come Kfor in Kosovo o Sea Guardian nel Mediterraneo. La crisi nel Mar Rosso è stato un esempio importante al riguardo. Di fronte all’intensificarsi degli attacchi Houthi a novembre 2023, gli Stati Uniti hanno reagito in poche settimane con l’operazione Prosperity Guardian cui ha subito aderito il Regno Unito. L’Unione europea ci ha messo due mesi per reagire, a causa del veto spagnolo poi superato: tanto tempo se paragonato agli Usa, poco tempo se comparato ad altre missioni UE. In altre parole, l’Unione in questo caso ha accelerato sul piano politico e militare, anche su meritoria spinta dell’Italia.

L’Italia però a sua volta ha faticato a tenere il passo europeo quanto a processo decisionale interno in quelle settimane tra febbraio e marzo. Anche in questo caso, un adattamento dell’approccio italiano alle missioni all’esterno aiuta il Paese ad esercitare una leadership in ambito Ue, sul Mediterraneo allargato, che è sempre più urgente e importante.

Quattro: prontezza del sistema Paese a repentini scossoni nella Nato

Si tratta di ragionare su uno scenario futuro tanto probabile quando dirompente: una prossima presidenza Trump, tra pochi mesi. E se la nuova amministrazione repubblicana spingesse per un rapido e drastico disimpegno dalla Nato e dall’Europa?  Per intenderci, e se gli stati uniti ritirassero i circa 600 militari statunitensi ora nella Kfor in Kosovo? Se ritirassero le migliaia di truppe sul fianco est, ad esempio in Polonia? Come reagirebbe l’Italia a questi repentini scossoni nella Nato? Gli alleati europei, Italia in primis, si troverebbero nella situazione di colmare il vuoto lasciato dagli Stati Uniti al meglio possibile, e più rapidamente possibile, per mantenere la deterrenza nei confronti della Russia e quindi la sicurezza collettiva e la stabilità dell’Europa. Dato il carattere di Donald Trump e le dichiarazioni dei mesi scorsi, non si tratta di ipotesi troppo remote.

L’Italia deve essere quindi pronta a prendere decisioni importanti in maniera tempestiva, per mantenere la solidità della Nato e della stessa architettura di sicurezza europea che ci ha assicurato la pace per oltre 75 anni. Anche in questo senso, il disegno di legge è un piccolo passo nella giusta direzione. Ad esempio, l’articolo 2 consente di pre-individuare, forze ad alta ed altissima prontezza operativa, da impiegare all’estero al verificarsi di crisi o situazioni di emergenza. Il nuovo comma 2.1 prevede comunque che, anche nell’ipotesi di impiego in via di urgenza delle forze ad alta ed altissima prontezza operativa, la deliberazione del governo venga comunque trasmessa alle Camere, le quali, entro cinque giorni, con appositi atti di indirizzo ne autorizzano l’impiego o ne negano l’autorizzazione.

Cinque: credibilità, efficacia e ritorno degli investimenti

Aldilà dello scenario della presidenza Trump, del ruolo dell’Italia nell’Europa della difesa, della crescente importanza delle missioni bilaterali nel Mediterraneo allargato, e dell’accelerazione e imprevedibilità di tensioni e crisi, aldilà insomma dei quattro punti esposti finora, vi è un dato strutturale sempre più importante.

Negli ultimi 35 anni, l’Italia ha partecipato ad un totale di oltre 135 missioni, di cui 36 oggi in corso. Il decreto missioni 2024 prevede 12 000 unità di personale massimo e 7.895 unità in media impiegate all’estero, un organico in leggera crescita rispetto al 2023 e in linea con un impegno italiano ormai trentennale.  Le risorse investire in tali missioni nel 2024 ammontano a circa 1,5 miliardi.

Le missioni militari all’estero sono uno strumento fondamentale della politica di difesa, e sono molto importanti per la politica estera e in generale la proiezione esterna del sistema-Paese. Politicamente, è un investimento, in termini militari, economici, e soprattutto di rischio per il personale in divisa, che genera un cero ritorno per gli interessi nazionali. Più questo investimento è credibile ed efficace, maggiore è il ritorno. Se il processo decisionale non è abbastanza tempestivo, flessibile ed efficiente, il ritorno dell’investimento è minore. Ad esempio, la semplificazione della procedura per la ripartizione delle risorse tra le varie missioni all’estero serve per rendere più snello il processo di assegnazione dei fondi alle singole missioni, il cui arrivo spesso ritardato negli anni scorsi creava problemi non indifferenti in termini di operatività.

In generale, migliorare, aggiornare e rafforzare l’approccio italiano alle missioni all’estero è quindi qualcosa di necessario e importante in primis per le missioni stesse, e in generale per il sistema Paese.

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