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Ecco i motivi storici e sindacali della guerricciola fra Camusso e Landini

Cgil e Fiom ai ferri corti in vista del congresso nazionale? Susanna Camusso e Maurizio Landini alla resa dei conti? Sarebbe ora, ma è inutile nutrire soverchie speranze. Ormai anche nella Cgil regna il caos, da quando è venuto a mancare ciò che ne ha fatto da collante per tanti decenni: il centralismo democratico e la disciplina di partito in vigore nel Pci d’altri tempi. Che tristezza!

Per anni si è accusata la Cgil di funzionare attraverso la ‘’cinghia di trasmissione’’ il cui motore stava in via delle Botteghe Oscure. Oggi – come nella poesia della quercia caduta (or vedo era pur grande!, or vedo era pur buona!) – dobbiamo constatare che nella più importante organizzazione sindacale del Paese ognuno fa come gli pare. E più fa ‘’casino’’ più i media gli corrono dietro. Nonostante gli errori e gli insuccessi.

La Fiom, ad esempio, perde iscritti; alla Fiat, con tutta la sua carica emblematica, non solo non è più il primo sindacato ma forse è divenuto addirittura l’ultimo nelle elezioni delle Rsu. Ma è sufficiente che Landini evochi le discriminazioni di Sergio Marchionne per fare la figura dell’eroe.

Non andava così quando il sindacato era una cosa seria e i dirigenti entravano da protagonisti nei libri di storia, come Giuseppe Di Vittorio. Nel 1955, lo shock venne dalle elezioni della commissione interna alla Fiat. I voti alla lista della Fiom-Cgil crollarono dal 65% al 36%; la Fim-Cisl salì dal 25% al 41%, la Uilm-Uil dal 10% al 23%. Fu Di Vittorio che alla “storica” riunione del Comitato direttivo della Cgil del 26 aprile condusse un’analisi coraggiosa denunciando le intimidazioni, le rappresaglie e i licenziamenti che avevano annichilito la classe operaia (fin da 1952 la Cgil aveva rivendicato l’approvazione di uno Statuto dei lavoratori proprio in chiave antidiscriminatoria).

Ma oltre a tali elementi – che pure pesavano – il leader della Cgil si interrogò sugli errori della Fiom e sul suo distacco dalla realtà delle fabbriche che stavano diventando sempre più moderne e caratterizzate da specificità non raccolte dalla contrattazione interconfederale e nazionale di categoria. Val la pena di ricordare le sue parole, pronunciate cinquant’anni or sono, ma di una modernità sconcertante, perché valide anche oggi: “Il progresso tecnico e la crescente concentrazione monopolistica dei mezzi di produzione, accentuano continuamente queste differenze, determinando condizioni di vita e di lavoro estremamente differenziate fra vari gruppi di operai anche in seno alla stessa azienda. Il fatto che la Cgil – proseguiva Di Vittorio – sottovalutando questo processo di differenziazione, abbia continuato negli ultimi anni a limitare la sua attività salariale quasi esclusivamente alle contrattazioni nazionali di categoria e generali, è stato un grave errore…..La situazione oggettiva ci obbliga – concludeva – a far centro della politica salariale la fabbrica, l’azienda”.

Allora, le parole avevano un peso. L’ammettere ex cathedra di aver compiuto un “grave errore” (quando sarebbe stato molto più semplice e meno dirompente prendersela, al solito, con i padroni)  fu un trauma per centinaia di quadri. Poi ci furono delle conseguenze anche ai vertici delle organizzazioni più esposte. Il segretario comunista Giovanni Roveda e quello “aggiunto”, il socialista Luigi Dalla Motta, persero il posto e furono sostituiti, rispettivamente, da Agostino Novella e da Vittorio Foa (membri della segreteria confederale). Poco tempo dopo Novella venne chiamato a sostituire Di Vittorio, morto a Lecco nel novembre del 1957, sulla breccia, come un vecchio soldato.

E’ il caso a questo punto di tracciare un profilo dei dirigenti sostituiti in quell’occasione. Dalla Motta, poco dopo, abbandonò la Cgil e passò alla Uil, dove rimase nella segreteria nazionale della federazione dei metalmeccanici (Uilm) ad occuparsi del settore siderurgico fino ai primi anni ’70. Che i vertici della Fiom avessero dei problemi era evidente, che meritassero di essere sostituiti lo era ancora di più e che i sostituti fossero personalità di rango era indubbio. Gli effetti positivi del cambiamento si avvertirono ben presto.

Anche in tempi meno lontani, nel 1980, quando i metalmeccanici subirono una sconfitta molto netta, dopo uno sciopero ad oltranza di 35 giorni (il segno della svolta fu la famosa “marcia dei 40mila” tra quadri, impiegati, capi e tecnici che rivendicavano il diritto a poter lavorare) venne rimosso Claudio Sabattini, il componente della segreteria responsabile del settore auto. La medesima sorte toccò a Tiziano Rinaldini che era il braccio destro di Sabattini (e fratello maggiore di Gianni Rinaldini che ha diretto la Fiom prima di Landini).

I fratelli Rinaldini sono reggiani come Landini e costituiscono il filone reggiano dei c.d. sandinisti. Chi sono costoro? Si tratta dei seguaci, appunto, di Claudio Sabattini (chiamato scherzosamente Sandino 1°), un personaggio – ora defunto – che ha profondamente inciso nei gruppi dirigenti del sindacato ovunque abbia svolto compiti di direzione (Bologna, Brescia, Piemonte). Dopo la disavventure del 1980 Sabattini trascorse un periodo molto travagliato anche sul piano personale, ma, con molta determinazione, una dozzina di anni dopo riuscì a diventare segretario generale della Fiom, istaurandovi una vera e propria dinastia e portando con sé tutti i suoi uomini (tra cui anche Giorgio Cremaschi).

Quando i sandinisti si impadronirono della Fiom si scontrarono con Susanna Camusso, allora, componente della segreteria e la costrinsero a cambiare incarico. Maurizio Landini appartiene alla terza generazione di questo gruppo veramente singolare di cui varrebbe la pena raccontare la storia.

Ma non sono i rancori personali a caratterizzare, in queste settimane, il conflitto tra la Cgil e la Fiom. Il casus belli è provocato dalla sottoscrizione da parte della Cgil del Testo unico sulla rappresentanza. Landini solleva una questione di metodo (un voto del Comitato Direttivo e non una consultazione dei lavoratori) e una di merito (la previsione di una commissione arbitrale per sanzionare le inadempienze e le violazioni dell’accordo).

Per ragioni apparentemente incomprensibili (ma arcinote) tutto quello che – bene o male – funziona nel restante mondo del lavoro, nei metalmeccanici fallisce. Ciò che altrove viene salutato come un successo, per la Fiom è una resa. Il fatto è che, sia per il rilevo oggettivo della categoria, sia per l’appeal mediatico che le si attribuisce in un sistema comunicativo in cui fa notizia l’uomo che morde il cane, tutto l’ambaradan sindacale subisce una sorta di gravidanza isterica e, “dall’Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno” tutti si mettono alla ricerca di una soluzione che possa valere anche per i metalmeccanici.

Una soluzione, tuttavia, che per il gruppo dirigente della Fiom evidentemente non esiste, dal momento che, nella riunione del Comitato direttivo della Cgil che ha ratificato a larga maggioranza il Testo unico sulla rappresentanza del 10 gennaio scorso, Maurizio Landini e i suoi non si sono limitati a votare contro, ma hanno dichiarato che la loro federazione quell’accordo – che disciplina meticolosamente i criteri della rappresentanza, le regole per  i negoziati contrattuali e per l’approvazione degli accordi –  non lo applicherà.

Ci troviamo di fronte a quella che i giuristi chiamano tautologia: si fanno gli accordi per “portare dentro la Fiom”; si sudano le classiche sette camice per riuscirvi; poi la Fiom si sottrae ugualmente; si riapre il problema e si ripropone l’esigenza di un nuovo accordo inclusivo della Fiom. In sostanza, come nel Gioco dell’oca si torna sempre alla casella di partenza. E così via per anni. Ma perché succede tutto questo?

I dirigenti della Fiom hanno sicuramente tre narici, ma non sono degli sprovveduti. Nella loro follia si intravvede una logica. La mossa – al limite della scissione – di aperta contestazione del Testo Unico sulla rappresentanza (con argomenti invero pretestuosi) è rivolta a rilanciare – in una fase che il leader della Fiom giudica favorevole in conseguenza del giro di valzer con Giamburrasca Renzi – l’ipotesi di una regolazione legislativa, non condivisa da altri settori sindacali. Landini ha sicuramente ritenuto che l’accelerazione impressa al confronto sul Testo Unico da parte della Confindustria e delle confederazioni sindacali avesse avuto lo scopo di bloccare o quanto meno di condizionare nei contenuti una eventuale legge sulla rappresentanza (per inciso ricordiamo che la Fiom ha presentato un testo di legge d’iniziativa popolare in materia).

Così, il leader delle tute blu si è avvalso del diritto di veto che gli è sempre stato consentito di esercitare, rimettendo in freezer un accordo praticamente  fatto per normalizzare i metalmeccanici. Il nodo sarà sciolto dal congresso della confederazione?

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