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Tutto quello che c’è da sapere sulla guerra del grano

Maurizio Martina

Agricoltori contro industriali, prezzi quasi dimezzati, manifestazioni di piazza, il governo che cerca di correre ai ripari, centinaia di aziende che rischiano di scomparire. La guerra del grano sta esplodendo a causa di una speculazione sul cereale che in un anno ha fatto perdere alla nostra agricoltura 700 milioni di euro. L’ultima discesa in piazza è stata a Palermo, con tanto di trattori al seguito, ma nei giorni scorsi i produttori si sono radunati a Termoli, Potenza e Bari. Altre manifestazioni si annunciano in Toscana ed Emilia Romagna, Lombardia, segnale che è un problema nazionale e non solo del Sud del paese.

Ma che cosa è successo? In pratica nel giro di pochi mesi le quotazioni del grano duro destinato alla pasta hanno perso il 43% del valore: si pagano appena 18 centesimi per un chilo, mentre si registra un calo del 19% del prezzo del grano tenero destinato alla panificazione, qui si scende addirittura a 16 centesimi al chilo. Prezzi che non coprirebbero neanche i costi di produzione.

“Speculazioni” urlano gli agricoltori capitanati dalla Coldiretti, “necessità produttive” rispondono gli industriali che attingono sempre più dall’estero (specialmente da Ucraina e Canada) dove la qualità sarà certamente inferiore a quella del nostro grano ma anche i prezzi notevolmente più bassi. La verità sta nel mezzo o, meglio, è da cercare altrove. Le quotazioni dei prodotti agricoli dipendono sempre meno dall’andamento reale della domanda e dell’offerta – che dovrebbero fare il mercato – e sempre più dai movimenti finanziari e dalle strategie speculative che vengono decise nel Chicago Board of Trade: è qui che il commercio mondiale da sempre contratta le materie prime agricole. È qui che da circa sei mesi è partita una speculazione al ribasso che non guarda in faccia nessuno e che ha messo nel mirino proprio la quotazione del grano.

Un crack senza precedenti denuncia la Coldiretti con i compensi degli agricoltori che sono tornati ai livelli degli anni Ottanta e con il rischio di perdere trecentomila posti di lavoro. “Non è un caso – dice l’associazione agricola – se nei primi quattro mesi del 2016 gli arrivi di grano in Italia sono aumentati del 10% finalizzati soprattutto ad abbattere il prezzo di mercato nazionale attraverso un eccesso di offerta”.

“Per restituire un futuro al grano italiano occorre l’indicazione in etichetta dell’origine del grano utilizzato nella pasta e nei derivati/trasformati – ha sottolineato il presidente della Coldiretti, Roberto Moncalvo – ma anche l’indicazione della data di raccolta (anno di produzione) del grano, assieme al divieto di utilizzare grano extra comunitario oltre i 18 mesi dalla data di raccolta. Ma serve anche fermare le importazioni selvagge a dazio zero”. Sarà ma per far questo occorre anche negoziare con Bruxelles dove un modello simile, quello sull’olio promosso dalla deputata del Pd Colomba Mongiello è stato modificato perché l’Italia rischiava una procedura d’infrazione proprio sulla “scadenza” che non va più indicata in etichetta.

Il Ministro per le politiche agricole, Maurizio Martina nei giorni scorsi aveva convocato un Tavolo cerealicolo dove ha annunciato alcune proposte operative, come 10 milioni di euro per dare avvio a un organico piano nazionale e sostenere investimenti infrastrutturali che valorizzino il grano di qualità 100% made in Italy. Poi la creazione di una Commissione unica nazionale per il grano duro (proposta avanzata anche dal M5S) per rendere più trasparente la formazione del prezzo, insieme alla conferma degli aiuti europei per il frumento che equivalgono a 70 milioni di euro all’anno fino al 2020 e una sorta di moratoria sui mutui. Ancora, il rafforzamento dei contratti di filiera con a disposizione 400 milioni di euro, la creazione di “un marchio unico sul grano” che può essere però solo volontario per non incorrere nella scure della Commissione europea e lo studio di un piano assicurativo che possa difendere gli agricoltori dalla speculazione.

Tutte buone intenzioni che tuttavia non hanno frenato le preoccupazioni degli agricoltori. Da pochi centesimi al chilo dipende infatti la sopravvivenza di migliaia di imprese ed è un paradosso tutto italiano perché è giusto ricordarlo siamo i primi produttori di pasta in Europa, ne esportiamo il 52%, con una superficie coltivata di 1,3 milioni di ettari e una produzione di quasi 5 milioni di tonnellate, eppure non riusciamo a difendere questo patrimonio, ad avere “il giusto pane quotidiano”.



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