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La Corea del Nord è un compito in classe per il futuro rapporto tra Cina e Stati Uniti

La mattina di domenica 14 maggio, poco dopo l’alba (ora locale), la Corea del Nord ha testato un vettore balistico che, tra le altre cose, ha offuscato uno degli appuntamenti geopolitici più importanti creati dalla Cina. Il missile di Pyongyang ha messo in ombra l’inaugurazione del percorso strategico della Nuova Via della Seta (la chiamiamo con questa semplificazione romantica in italiano, in inglese va con l’acronimo OBOR, One Belt One Road, diventato un concetto filosofico, dice la CNN, ed è la somma di due progetti, il terrestre Silk Road Economic Belt, e il marittimo 21st Century Maritime Silk Road). Il presidente Xi Jinping stava celebrando a Pechino il mastodontico programma su cui il suo governo ha già investito centinaia di miliardi di dollari, una sorta di “Piano Marshall cinese” (che secondo un’analisi della Brookings è solo uno degli asset degli investimenti internazionali cinesi). Davanti a Xi c’erano 28 capi di stato e di governi e 100 funzionari di altrettanti paese, ma il missile del Nord ha messo il summit in un piano secondario e funzionale. La domanda del diplomatico pragmatico: potrà la Cina gestire un sistema così articolato, diffuso, complesso (anche per ciò che concerne le minacce armate, terroristiche per esempio) come la OBOR, quando non riesce a contenere le ambizioni di uno stato che praticamente resta attaccato al mondo soltanto per il cordone ombelicale cinese? Domenica i primi dubbi, live.

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La Nikkei Asian Review fa notare un fatto ineccepibile: il test di domenica è una delle varie dimostrazione che Kim Jong-un ha intenzione di proseguire con la propria agenda militare per arrivare all’atomica: o meglio, arrivare a poter creare un sistema in grado di trasportarla in tutto il mondo. Le armi, la Bomba più d’ogni altra cosa, permettono al dittatore nordcoreano di mantenere “la sua presa sul potere, oltre a fornire legittimità al regime” scrive la rivista economica giapponese. Questo nonostante i tentativi di contatto siano negli ultimi giorni più intensi. Sono ripresi i dialoghi a distanza di tipo Track-2 a Oslo (ex funzionari americani, ora in abiti civili, stanno incontrando uomini mandati in Norvegia dal governo di Pyongyang); Washington aveva aperto alla possibilità di un incontro diretto tra capi di stato “sotto le giuste condizioni”; la Cina ha invitato una delegazione nordcoreana al vertice di OBOR – là, scrive l’agenzia di stampa sudcoreana Yonhap, il ministro del Commercio del Sud si è incontrato informalmente con l’omologo del Nord. Ma quelle “giuste condizioni” avranno mai un punto di sovrapposizione? Pyongyang vuole che gli Stati Uniti le riconoscano uno status da potenza nucleare, un’ambizione praticamente irraggiungibile.

Lanciare un missile non è il giusto path per intavolare una negoziazione con gli Stati Uniti, ha detto la rappresentante americana all’Onu Nikki Haley. Ovvio – Kim è in “stato di paranoia”, ha aggiunto Haley, con un commento un po’ meno diplomatico. Inoltre diversi analisti concordano che il test di domenica ha rappresentato un’evoluzione: lo specialista John Schilling che ha parlato col Washington Post, dice che rappresenta un livello di performance superiore rispetto a quello visto finora. Per questo la Casa Bianca ha chiesto misure ancora più punitive, in termini di sanzioni, e dal dipartimento del Tesoro hanno fatto sapere che non commenteranno niente sulle future azioni, ma stanno valutando qualsiasi tool a disposizione per colpire Kim. Mentre il ministro degli Esteri cinese ha commentato: “Al momento la situazione nella penisola è complessa e delicata, e tutte le parti interessate devono dar prova di moderazione e non fare nulla per peggiorare ulteriormente le tensioni regionali”. L’ottica è questa: diversi analisti ritengono che la provocazione del test missilistico sia un test psicologico cercato da Kim per registrare le reazioni americane, cinesi e soprattutto della Corea del Sud. Da queste, potrebbero partire i negoziati.

La Corea del Nord è un grande test per la Cina globale, e contemporaneamente lo è per gli Stati Uniti: Pechino si trova coinvolta nel peggiore dei mestieri globalisti, gestire interessi internazionali sistemando questioni interne a un paese – una missione non amata dai diplomatici cinesi –, mentre contemporaneamente Washington si trova nell’inusuale compito di sbrogliare la pratica insieme alla Cina, la rivale. OBOR compresa, allora, il ruolo di Pechino nel mondo è destinato a prendere sempre più una posizione di rilievo, e per questo il big-test nordcoreano è interessante. Proiettarsi per esempio alla disputa sul Mar Cinese Meridionale. I cinesi ne vogliono controllare le rotte, pezzo della via della seta marittima che sposta ogni anno miliardi di merci. La partita è contesa con alleati americani e occidentali, ma la Cina ha già spinto la militarizzazione (in questi giorni le immagini del satellite open-socure DigitalGlobe mostrano i funghi-radar dei KJ-500, aerei da monitoraggio, su una delle piste create da Pechino con opere di ingegneria spinta su uno degli isolotti contesi). Le manovre di guerra psicologica americana hanno mosso nei mesi passati alcune navi militari a mostrare bandiera nell’area, ma da quando Donald Trump si è insediato non ci sono stati più questi passaggi (anzi, sono stati negati, nonostante Trump definisse la politica per il Mar Cinese sostenuta dalla precedente amministrazione “debole”). Trump è l’artista dell’accordo: vuole abbassare le tensioni – che lui stesso aveva creato sparando ad alzo zero contro la Repubblica popolare durante la campagna populista con cui ha vinto l’elezioni. Vuole portare Pechino al confronto negoziale globale.

Sabato l’ambasciatore afghano in Cina, Janan Mosazai, ha dato un’intervista in esclusiva al South China Morning Post in cui ha spiegato che l’Afghanistan potrebbe essere il terreno ideale per l’inizio di attività di cooperazione tra Cina e Stati Uniti. Mosazai ovviamente tira acqua al proprio mulino, ma in effetti la situazione nel paese che rappresenta è critica e allo stesso tempo un’occasione. Trump sta riflettendo se aumentare l’impronta militare americana contro i Talebani, come suggerito dal Pentagono, e mandare all’aria un pezzo delle sue visioni contro l’interventismo. Contemporaneamente sta crescendo la minaccia di quello che i militari di Washington adesso chiamano Isis-K, la provincia del Khorasan dello Stato islamico. Questa confina con lo Xinjuang, la provincia uigura (musulmana) cinese, che da qualche anno sta creando problemi di sicurezza interna a Pechino e ha fatto anche da serbatoio per diversi baghdadisti e qaedisti che hanno infoltito le milizie nel jihad siriano (quest’anno, per la prima volta, forze di sicurezza afghane, addestrate dagli occidentali, hanno condotto esercitazioni con reparti anti-terrorismo cinesi in Cina). L’Afghanistan è l’unico paese inserito in un meccanismo trilaterale con cinesi e americani, di cui tutti e tre i membri hanno interessi – Kabul è tagliato dalla Via della Seta cinese, e rappresenta un crocevia del terrorismo, contro cui l’Occidente ha già investito molto.

(Foto: Wikipedia)

 



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