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Il Nord continua a scaldare le armi, e mentre a Washington se ne parla meno il Sud sospende Thaad

La Corea del Nord ha effettuato giovedì 8 giugno il test su altri quattro missili, con ogni probabilità cruise anti-nave, surface-to-ship. Il portavoce delle Forze armate sudcoreane dice che è un modo per dimostrare la “capacità di colpire obiettivi con precisione”. Dall’inizio del 2017 Pyongyang ha già effettuato 10 test su 16 missili, in violazione alle restrizioni delle Nazioni Unite.

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I missili anti nave sono elementi simbolici e messaggi provocatori davanti all’intenso dispiegamento americano di gruppi da battaglia (come vengono definiti gli schieramenti navali che accompagnano le grandi portaerei americane, e che sono composti da cacciatorpediniere, fregate, incrociatori, più navi di supporto, cisterne e rimorchiatori da altura). Di questi, attualmente, in direzione Corea del Nord, ce ne sono tre: quello della Vinson, della Ronald Reagan, in zona, e la Nimitz, partita in questi giorni da San Diego per ricambio.

Ma nonostante questo, e nonostante la minaccia nordcoreana resti sempre la stessa (e l’Onu ha alzato nuove sanzioni la scorsa settimana), l’amministrazione Trump ha messo l’argomento sul sedile posteriore. Se si fa eccezione di un dovuto accenno fatto dal capo del Pentagono James Mattis durante L’International security conference di Singapore, l’argomento Corea del Nord pare essere uscito dai radar trumpiani – spesso la Casa Bianca ha utilizzato argomenti e temi anche di carattere internazionale per scatenare il dibattito pubblico a scopo interno.

Questo nuovo test di Pyongyang è arrivato poche ore dopo l’annuncio da parte di Seul sullo stop al dispiegamento del sistema anti-missile Lockheed Martin Thaad. La Corea del Sud ha deciso di sospendere l’arrivo di altri quattro batterie perché richiedono un adeguato studio d’impatto ambientale che durerà diversi mesi – la beffa per l’amministrazione americana che ha ritirato gli Stati Uniti dagli accordi di Parigi, che si vede bloccata una fornitura militare milionaria per ragioni ambientali.

E così salta il piano americano di piazzare Thaad nel Sud, a Seoungiu, in tempi rapidissimi: Giulia Pompili del Foglio fa notare che l’accelerazione sull’arrivo dell’impianto – comunque prevista anche dall’amministrazione precedente – era stata sì collegata alla minaccia nordcoreana, ma anche all’amplificazione di questa fatta ad hoc dal presidente Donald Trump.

E non va dimenticato che il nuovo leader progressista sudcoreano Moon Jae-in ha basato anche sulla riapertura del dialogo col Nord e su una maggiore indipendenza dall’America il programma di politica estera con cui ha sconfitto i conservatori.

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Thaad è un elemento politico della situazione: è fortemente voluto da Washington, odiato da Pyongyang e fa innervosire Pechino, con cui Seul pensa a una distensione. Forse quello dell’impatto ambientale è un vizio di forma arrivato nel momento in cui l’amministrazione Trump aveva allentato l’interesse.

 

 



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