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Giuliano Pisapia, Insieme e la piazza ulivista dell’ossimoro

(Articolo ripreso da www.graffidamato.com)

Per fortuna c’è l’omonima basilica dei Santi Apostoli a presidiare a Roma il nome della piazza scelta, o accettata, dall’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia per radunarvi le tante anime sparse della sinistra, tentate o decise a ritentare l’avventura di mettersi “Insieme”, con la maiuscola, per ricostituire dopo le prossime elezioni il centrosinistra realizzato nella cosiddetta seconda Repubblica con l’albero e poi le foglie dell’Ulivo. Furono due edizioni, a dieci anni l’una dall’altra, ugualmente infauste, per quanta nostalgia mostri di averne, oltre a Pisapia, quel campeggiatore doc che vanta ora di essere Romano Prodi, con quella tenda che smonta e rimonta continuamente per avvicinarsi o allontanarsi dal Pd guidato da Matteo Renzi. Del quale il professore emiliano votò il 4 dicembre scorso la controversa riforma costituzionale, sia pure con dichiarata sofferenza, ma non ha nessuna voglia di favorire adesso il ritorno a Palazzo Chigi.

Per fortuna, dicevo, a tutelare il nome della piazza romana dei Santi Apostoli c’è l’omonima basilica, cara – pensate un po’- sia alle memorie monarchiche di Palazzo Colonna, che vi si affaccia, sia al presidente della Repubblica in carica, Sergio Mattarella, che la scelse due anni fa per partecipare alla prima messa domenicale dopo l’elezione al Quirinale. Vi andò a piedi, non ancora in carica ma debitamente scortato naturalmente, dalla residenza di servizio della Corte Costituzionale e fu festeggiato all’arrivo da un gruppo di suore.

Se non ci fosse quella benedetta basilica, la piazza omonima meriterebbe ben altri nomi. Per esempio, la piazza dell’ossimoro per le tante e persino opposte anime che vi accorrono, e per mettere insieme le quali per una volta il Prodi di turno non deve munirsi di secchi di colla, di qualsiasi marca gli capiti di trovare in giro. O addirittura la piazza della sfiga, come si dice irriverentemente na anche scherzosamente a Roma. Della sfiga, perché proprio il popolo chiamato a stare “Insieme” -vi raccomando di nuovo la maiuscola- dal volenteroso Pisapia- lì ha provate le sue più cocenti e rovinose delusioni.

Fu proprio in quella piazza, per esempio, che la sera del 10 aprile 2006 Prodi rischiò per un pelo di festeggiare non la sua ultima vittoria elettorale, dopo una campagna condotta sotto le insegne dell’Unione, riedizione del vecchio Ulivo, ma la sua prima sconfitta nei due confronti avuti con l’avversario Silvio Berlusconi.

Quella sera maledetta del 10 aprile 2006, mentre la piazza si riempiva delle varie tribù, diciamo così, dell’Unione -da Mastella a Turigliatto- Prodi era costretto nell’ufficio che vi si affacciava a compulsare agenzie per nulla confortanti. Che davano in parecchi posti sconfitte o testa a testa da cardiopalmo con la maggioranza uscente di centrodestra.

Il povero ministro dell’Interno Giuseppe Pisanu, forzista allora di prima fila, era letteralmente assediato per telefono e di persona da chi come Berlusconi lo incitava a far fare controlli più minuziosi, specie nel Casertano, nei cui seggi elettorali gli risultavano più imbrogli del solito, e chi invece lo incitava a farla finita e ad annunciare i dati pur provvisori a favore della sinistra spacciandoli o lasciandoli spacciare per definitivi, o quasi. E ciò in modo da consentire finalmente allo sventurato Prodi e agli amici di scendere in piazza tra la gente ormai infreddolita, data l’ora, e festeggiare, o fingere di festeggiare una vittoria invece incerta.

Alla fine prevalsero i secondi assedianti convincendo l’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi a intervenire di persona su Pisanu. Che, sventurato, come la monaca di Monza, rispose. E fu finalmente festa nella piazza, mentre Berlusconi sbraitava con i suoi per i controlli mancati o ancora in corso. E Pisanu ne rimase segnato politicamente.

Il secondo e ultimo governo Prodi, nato da quella festa improvvisata, durò ancora meno del primo. E cadendo, dopo due anni soltanto, si portò appresso la legislatura, che non aveva letteralmente i numeri per continuare. Ma non li avrebbe forse avuti neppure per cominciare.

Alla Camera l’Unione prodiana era prevalsa ufficialmente e -ripeto- tra accesissime contestazioni, del tipo di quelle del referendum del 1946 fra la Monarchia e la Repubblica, per 24 mila miserabili voti. Al Senato invece il centrodestra prese 500 mila voti in più dell’Unione prodiana, prendendo però tre miserabilissimi parlamentari in meno per il meccanismo regionale di attribuzione dei seggi.

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