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Leonardo-Finmeccanica, ecco come Francia e Germania vogliono isolare l’Italia sulla Difesa

terrorismo

Eravamo ormai abituati ai vacui quanto insinceri proclami di chi da anni va auspicando una identità europea della Difesa, abbiamo tirato avanti facendo finta di crederci. Ora però è troppo. Ora bisogna battere i pugni sul tavolo perché dalle parole qualcuno sta passando ai fatti e ci si vuole convincere che si va verso l’Europa della Difesa sviluppando un caccia di quinta generazione franco-tedesco, un progetto annunciato giorni fa dai presidenti dei due Paesi, a margine dell’ultimo vertice bilaterale. Cerchiamo di capire le ragioni di una auspicabile interdizione italiana ed andiamo con ordine.

Se oggi dovessimo sommare aritmeticamente gli eserciti europei, avremmo come risultato uno strumento militare ampiamente deficitario, squilibrato e poco omogeneo. Mancherebbero all’appello non poche capacità, alcune delle quali indispensabili – o come si dice in gergo militare, “abilitanti”.

Le operazioni belliche del 2011 in Libia ne hanno dato la più probante testimonianza, insieme alle indicazioni sui buchi da colmare. E non era certo la componente aerotattica quella che mancava all’appello: come sempre i velivoli da combattimento erano lì disponibili in quantità, anche per operazioni aeree ad alta intensità.

Si è scoperto che mancavano altre cose, ma averne avuto contezza sul terreno non è stato stimolo sufficiente a modellare uno strumento militare complessivo, che potesse essere chiamato europeo.

Tra l’altro, con la persistenza di scenari di confronto puntualmente asimmetrici, i velivoli armati combinano più guai di quanti problemi risolvano; soprattutto se usati in maniera indiscriminata come nel teatro siro-iracheno o yemenita.

Peraltro, aggiornare una componente aerotattica per renderla più rispondente ai contesti attuali significa incrementare la disponibilità di aeromobili ad alta permanenza sull’obiettivo da colpire, quali gli Apr (i cosiddetti droni), gli elicotteri da combattimento, le cannoniere volanti, ed è semmai su questi sistemi che la ricerca e lo sviluppo si dovrebbero orientare.

Aggiungiamo che dal punto di vista prettamente operativo, la Germania è in Europa l’unico Paese che non ha nulla da dire, può solamente ascoltare ed imparare da chi, sul terreno, ha vissuto e promosso in prima persona l’evolversi della dottrina di impiego della forza anziché sedersi e guardare, tutt’al più intervenendo con la “politica degli assegni” in sostituzione alla partecipazione attiva in operazioni belliche. Ecco perché in queste condizioni è totalmente velleitario – ma con i tedeschi ci siamo abituati – ambire a guidare l’Europa verso una identità di Difesa.

Dal punto di vista tecnico, poi, si fa presto a dire velivolo di quinta generazione. Il salto di qualità dell’F35 ha costi proibitivi, gli Usa per renderli abbordabili ne ha dovuti mettere in cantiere quasi 3000 esemplari; questo sempre che la tecnologia franco-tedesca sia in grado di raggiungere le stesse performance di quella statunitense (soprattutto sul versante software, perché questo è il vero nodo tecnologico) agli stessi costi, cosa di cui più che dubitare è lecito nutrire certezze.

Possibile che la deludente prova data da un progetto a tecnologia infinitamente più bassa, quello dell’A400M, in forte ritardo ed afflitto da costi fuori controllo, non abbia fatto prendere coscienza del reale livello di ambizione cui è possibile aspirare in Europa? Si tratta, è bene ricordarlo, di un semplice velivolo da trasporto.

Allora perché imbarcarsi in una avventura che ha tutte le caratteristiche del fiasco oltre che della dubbia utilità, o quanto meno di essere accreditata di una priorità in netto subordine ad altre capacità indispensabili ed urgenti? Non riuscendo a trovare una sola ragione convincente per un progetto che suscita solo perplessità, i cattivi pensieri cominciano a farsi largo.

Vuoi vedere che le industrie di Francia e Germania hanno convinto i rispettivi governi a lanciare un programma che consenta l’accesso al fondo comune per la Difesa, quello varato lo scorso 7 giugno e dotato di 5,5 miliardi l’anno?

Che sia questa una chiave di lettura o non lo sia, è opportuno che il governo italiano eserciti una stretta vigilanza sui prossimi passi comuni: se l’obiettivo è quello di mettere mano finalmente a un esercito europeo, l’Italia, avvalendosi anche della sua esperienza (che con la fuoriuscita di Uk ci vede primeggiare nella moderna dottrina di impiego della forza), rivendichi un ruolo attivo e pretenda un ruolo in una cooperazione rafforzata a tutto tondo.

Tra l’altro, se la questione è quella di portare alla quinta generazione le forze aerotattiche europee, perché non pensare ad “europeizzare” l’F35? Quattro Paesi membri Ue hanno deciso di dotarsene oltre a Paesi Nato quali Regno Unito e Turchia; altri, tra cui la stessa Germania, hanno manifestato interesse per questo vero velivolo di quinta generazione; allora perché non consorziarsi, come si è sempre fatto quando si utilizza un sistema di armamento comune, e parlare con una sola voce al partner di maggioranza, gli Usa, spuntando condizioni migliori di partecipazione al progetto? Perché inoltre non pensare a sviluppare in Europa tecnologie da integrare nell’F35 o integrare nel sistema componenti prodotte dall’industria europea come il missile Meteor o Iris-T?

Questo sì che legittimerebbe l’accesso ai fondi comuni, darebbe le giuste chance alla tecnologia nostrana per non rimanere indietro, sarebbe un vero tassello di un disegno più ampio, quello a cui, a chiacchiere, non si perde occasione di anelare.

Ed in tutto questo è bene che anche la nostra industria, segnatamente Leonardo-Finmeccanica, che ancora una volta rischia di rimanere schiacciata dalla prepotenza di altri, faccia fronte comune e fornisca al governo gli strumenti idonei ad impedire che l’improbabile progetto di un caccia franco-tedesco di asserita, ma poco credibile, quinta generazione, vada a compimento. Ed in più, probabilmente, anche a nostre spese.

 

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