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Tutte le fibrillazioni fra Trump e Putin sulle sanzioni alla Russia

L’ufficio stampa della Casa Bianca ha fatto sapere che il presidente Donald Trump intende firmare il disegno di legge approvato in forma bipartisan da entrambe le camere americane sulle nuove sanzioni a Russia – soprattutto –, Iran e Nord Corea. Sarah Sanders, la portavoce, ha scritto in uno statement: “Il presidente Donald J. Trump ha letto le prime bozze del disegno di legge e negoziato per quanto riguarda gli elementi critici. Ora ha esaminato la versione finale e, sulla base della risposta ai suoi negoziati, approva la proposta e intende firmare”. Dietro a quell'”intende” c’è ancora la possibilità che cambi idea (e con Trump non sarebbe la prima volta), ma la firma è quasi certa.

AUTO-LIMITAZIONE DI POTERI E POLICY

L’aspetto interessante è che il semaforo verde di Trump ridurrà i poteri del presidente – che dovrà avere l’avvallo del Congresso prima di poter sollevare quelle stesse sanzioni in futuro – e contemporaneamente Trump si vede bocciata una delle sue più importanti linee programmatiche: l’apertura alla Russia. Ma il Russiagate è un fardello presidenziale che blocca l’azione di governo anche in questi sensi: porre un eventuale veto, che comunque potrebbe essere scavalcato dai due terzi delle camere visto il largo consenso ricevuto dalla legge, potrebbe aprire a nuove e velenose polemiche sulla troppa disponibilità verso la Russia.

LE REAZIONI DI MOSCA

Mosca ha già reagito. Giovedì, dopo che il Senato ha approvato il testo recepito dalla Camera e lo ha passato sulla scrivania dello Studio Ovale, la Russia ha alzato la dialettica – già critica nei giorni passati, con il portavoce del presidente Vladimir Putin che aveva definito “russofobe” le posizioni prese dai congressisti americani – e annunciato che la legge sarebbe stata la fine della possibilità di riscaldare i rapporti avviata con gli incontri presidenziali al G20. Venerdì ha diffuso le prime misure di rappresaglia: ha sequestrato due proprietà governative americane in Russia – entrambe a Mosca – e ha chiesto a Washington di ridurre il personale diplomatico nel paese entro l’1 settembre.

IL FILO SOTTILE SU CUI SI MUOVE MOSCA

Il Cremlino per quanto riguarda le misure sanzionatorie in casa ha le mani piuttosto legate: azioni troppo restrettive, al di là di queste più che altro simboliche contro la diplomazia, potrebbero intaccare gli interessi degli investitori americani, che invece sono fondamentali data la precaria situazione economica russa. Diversamente per quel che riguarda azioni esterne, che potrebbero interessare per esempio aree di crisi come la Siria o l’Ucraina.

LA GUERRA DIPLOMATICA, NONOSTANTE TRUMP

Questo genere di screzi diplomatici è iniziato ufficialmente nel dicembre del 2016, quando Barack Obama decise di espellere 35 funzionari dell’ambasciata russa (considerati agenti sotto copertura) come misura sanzionatoria per le interferenze alle elezioni del mese prima. In quell’occasione chiuse anche due compound diplomatici russi, uno a New York e l’altro in Maryland. Mosca non reagì immediatamente, Putin passò da freddo e calcolato stratega e Obama da paranoico e isterico tra i fan internazionali, anche per via della narrativa trumpiana che esaltò la reazione misurata del russo. Successivamente il Cremlino decise di sequestrare i terreni dove sarebbe dovuto nascere il nuovo consolato americano di San Pietroburgo e di avviare una serie di pressione per ricevere indietro il controllo dei due compound in America. Per un lungo periodo si è pensato che il presidente Trump sarebbe stata molto benevola con la Russia, cancellando le precedenti posture statunitensi: ma il presidente americano deve fare i conti con i sistemi di check-and-balance su cui si fonda la democrazia americana (e quei sistemi dicono che i compound russi hanno ancora i sigilli, gli stessi che adesso sono stati apposti su altri americani, e il rapporto tra Russia e Stati Uniti in questo momento è ai minimi termini).

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