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Alcuni sudcoreani dicono che il THAAD è un rischio per Seul. Perché?

“Lì ci sono sepolti i miei genitori, e non posso andarli a trovare perché gli americani l’hanno dichiarata una zona militare. Ma quella non è una zona militare americana, quella è una mia zona famigliare piuttosto!”. Sono di questo tono i commenti raccolti in un reportage della California Sunday Magazine a Soseong-ri, paesino infinitesimale della Corea del Sud settentrionale, dove Washington e Seul hanno concordato di piazzare la (prima) batteria THAAD, sistema missilistico che ha lo scopo di creare uno scudo contro eventuali attacchi di Pyongyang.

In poche settimane Soseong-ri — talmente remoto che i contadini locali quasi non si accorsero nemmeno della guerra tra le due Coree — è diventato il centro delle proteste pacifisti sudcoreane. Il THAAD, teoricamente l’ultimo baluardo difensivo contro una follia di Kim Jong-un, trova resistenze: tutte le sere alle 8 i monaci iniziano una preghiera pubblica e gli attivisti si uniscono ai locali in manifestazioni contro la presenza americana. Non è solo nimbitude, non è solo contestazione: c’è una posizione strategica in alcuni dei manifestanti. A fine luglio sono arrivati, un centinaio non di più, a protestare fino alle sedi governative di Seul.

Dicono che il THAAD più che essere un sistema difensivo è “un rischio”. Perché? Perché il suo schieramento potrebbe innervosire il regime nordcoreano che non si è mai piegato finora agli show of force, offerti dagli americani più che altro per rassicurare gli alleati locali. In più la batteria di fabbricazione Lockheed-Martina da un miliardo di dollari — che una volta il presidente Donald Trump disse che i sudcoreani avrebbero dovuto pagare — è fortemente osteggiata da Pechino. I cinesi la considerano una provocazione militarista americana, un’ingerenza negli affari regionali, e temono che i suoi radar siano usati più come orecchie per ascoltare ciò che succede in Cina che per seguire il Nord.

La minaccia è concreta, schiacciante per Seul, che si trova sotto il drammatico tiro delle bocche di fuoco d’artiglieria schierate lungo il 38esimo parallelo da Kim —secondo la gran parte degli esperti sono queste, nonostante molte potrebbero essere obsolete, l’aspetto più concreto della forza militare nordcoreana, più di un eventuale attacco atomico. E contro l’artiglieria il THAAD non funziona. Ciò nonostante il presidente Moon Jae-in, ha chiesto durante la riunione del consiglio di sicurezza del Palazzo Blu fatta dopo l’ultimo test di Pyongyang, di andare avanti con lo schieramento altre quattro batterie del sistema anti-missile americano — subito avviati i contatti con la Casa Bianca.

Sulla scelta i critici dicono: Jae-in ha proposto una piattaforma di politica estera che include anche la riapertura dei colloqui con il Nord, ma contemporaneamente ordina lo schieramento di un sistema militare che potrebbe far innervosire e allontanare Pyongyang, e che è detestato dalla Cina (pezzo imprescindibile per chiudere il puzzle coreano).

Anche i funzionari americani hanno detto al New York Times che il THAAD non avrà un effetto: il Nord può colpire fino al suolo americano (gli esperti hanno calcolato che l’ultimo Hwasong-14 lanciato avrebbe potuto colpire Los Angeles, funzionalità permettendo). Al Pentagono sembrano aver chiaro che ormai la soglia è stata varcata: Pyongyang ha la possibilità di attaccare fino in America, un peso che Washington tollera a proposito di Russia e Cina, ma che gli ultimi quattro presidenti hanno sempre detto insostenibile a proposito del Nord. È solo che le opzioni sono minime, sia per Washington che per Seul: la principale di queste, il coinvolgimento cinese (che già sul dossier hanno un atteggiamento ambiguo, ma sono forse gli unici a poter qualcosa con Kim), è messa a rischio anche dallo schieramento del THAAD e dalla presenza americana nella regione.

 



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