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F-35, vi racconto l’abbaglio mediatico sulla relazione della Corte dei Conti

“In base agli accordi sottoscritti, la misura della partecipazione dei partner alla fase di sviluppo è fissa, e non suscettibile di aumenti. Gli incrementi di costo attribuibili a tale fase vengono pertanto assorbiti dai soli Stati Uniti”. O, parafrasando, “da notare che la già segnalata lievitazione dei costi dello sviluppo non ha comportato un aggravio immediato per i Partner, la cui quota di partecipazione a tale fase è espressamente ancorata alle previsioni di costo come determinate inizialmente”.

Alzi la mano chi ha sentito o letto sulla stampa queste frasi contenute nella relazione sull’F-35 della Corte dei Conti (qui l’approfondimento di Formiche.net). Eppure la Corte li ha scritti: per la precisione, alle pagine 7 e 15. Il puro e semplice “raddoppio dei costi” sul quale hanno titolato tutti, dalle agenzie ai quotidiani, dalle Tv ai siti, è quindi una “fake news”. L’Italia ha risparmiato sullo sviluppo, al contrario di quanto avvenuto su programmi nazionali ed europei. Sui costi unitari, gli 80 milioni al pezzo per il block buy attualmente in discussione sono il 16% in più dei 69 previsti nel 2001, e non il doppio. Il costo maggiore dei primi lotti è fisiologico. Per una valutazione corretta bisognerebbe fare una media ponderata (una sommatoria costo x unità acquisite a quel prezzo, diviso per tutte le unità prodotte), ma è chiaro che il confronto tra una produzione iniziale a basso ritmo (Lrip) e quella stabilizzata a pieno ritmo equivale a paragonare kiwi e cocomeri. Pillole di economia che sulla stampa non hanno trovato posto.

Così come, commentando la questione dei cosiddetti “ritorni” (ma sarebbe meglio parlare di “quote”, nell’interpretazione italiana corrente), nessuno ha riportato l’osservazione più politica di una relazione che – lodevolmente – dichiara in apertura di non voler sindacare le scelte politiche e militari. “La competitività del sito di Cameri”, scrive alle pagine 59-60 la Corte, mettendo sotto accusa un approccio trasversale a forze politiche e programmi, “è fortemente dipendente dal grado di affidamento suscitato dal Partner italiano, che è a sua volta condizionato dalla stabilità del profilo di acquisizione. Appare legittimo parlare a tale proposito di un ‘costo dell’incertezza’, che si traduce in un duplice rischio di perdita per le imprese italiane, comportando non solo la riduzione del livello attuale delle commesse, ma anche la revisione verso il basso delle chance di lavoro futuro per gli anni di vita attesa del velivolo”.

Parlare di “fake news” per una omissione può essere una forzatura, ma questa osservazione spiega bene l’assegnazione di pacchetti di lavoro manutentivo a Marham, in Gran Bretagna, anziché all’Italia: chi gestisce un programma dalla vita lunghissima (fino al 2038 per la parte di produzione e fino al 2070 per quella operativa, p. 3) deve garantirsi la certezza di forniture e servizi, tutelandosi dagli impegni a corrente alternata.

La terza osservazione riguarda i costi, cioè il campo d’indagine tipico della Corte. Il taglio da 131 a 90 esemplari imposto dal governo Monti ha comportato – scrive la relazione alle pagine 20 e 35, confermando quanto la stampa specializzata aveva spesso scritto – il taglio del numero dei cassoni alari da produrre in Italia da 1.215 a 835, con una perdita di “opportunità” per circa 3,1 miliardi di dollari. Si badi che se il taglio si fosse fermato a 100, Lockheed Martin avrebbe dovuto, a termini di contratto, confermare le 1.215 unità previste. In questo senso, il minor impatto economico del programma è anch’esso una “fake news”, almeno nella misura in cui si nasconde il ruolo delle decisioni politiche italiane, legittime ma non neutre o indifferenti.

L’ultima osservazione riguarda la sostanziale mancanza di alternative. La “dimensione complessiva” del programma F-35 porta (pagine 61-62) a una “sostanziale sterilizzazione di possibili programmi analoghi” per la “presumibile difficoltà di reperire opzioni di livello corrispondente in altri programmi nel medio e forse lungo periodo, potendo fruire dei vantaggi economici derivanti dalla posizione di Partner di secondo livello”. Senza scordare “la possibilità di fruire di un livello tecnologico non disponibile attualmente nel Paese”. La “fake news” qui riguarda la presunta equivalenza con l’F-35 dell’M-346FT (riportata alcune settimane fa dallo stesso quotidiano che ora titola sul raddoppio dei costi) o dell’Eurofighter.

Omettere questi concetti capovolge l’interpretazione del giudizio sostanzialmente positivo dato dai magistrati contabili, il cui lavoro scrupoloso ha privilegiato la documentazione ufficiale alle posizioni partitiche o aziendali (più comprensibili che condivisibili) e valuta con equilibrio i diversi aspetti. In campo industriale, per esempio, la Corte valuta “soddisfacente” la partecipazione industriale per la parte “velivolistica” e meno per quella motoristica (che sconta l’aver scommesso sul motore alternato F136, che è stato cancellato per ridurre i costi di sviluppo) e avionica. Se si pensa che secondo la Corte l’85% e il 90% del valore delle commesse nelle prime due aree riguarda Leonardo (ex Finmeccanica), mentre per la parte motoristica il 90% è diviso fra tre aziende (Avio, Piaggio e Forgital), la relazione aiuta a comprendere matrice di molte critiche.

Resta da chiedersi perché la stampa italiana – con poche lodevoli eccezioni – si sia appiattita su un’interpretazione a senso unico e quantomeno forzata. Molto pesa la fretta, perché nell’era di internet la velocità prevale sulla qualità, ci vuole tempo per leggersi l’intero documento anziché le sole conclusioni, oppure fare riscontri. Tanto pesa la mancanza di specialisti in un settore complicato misto di tecnologia e strategia, con annessa difficoltà di contestualizzare (per esempio tramite il confronto con altri programmi) o trovare le vere notizie contenute nella relazione (dal rientro degli F-35 italiani da Luke alla rinuncia a basarli a Grottaglie). Qualcosa avrà giocato l’estate, che sguarnisce redazioni già deboli e rende faticoso digerire 62 pagine fitte e tecniche. E un ruolo l’avrà avuto pure l’informale velina nei confronti del programma il cui nome ormai è sinonimo di “male” e di “spreco”.

Però è difficile sfuggire alla conclusione che la rinuncia a esercitare lo spirito critico e prendersi gli spazi di autonomia, la scarsa voglia di confrontarsi con temi difficili, la fragilità di un sistema editoriale restio a compensare la professionalità e l’impegno siano fattori che rendono sempre più difficile distinguere tra “news” e “fake news”. Un detto giornalistico vuole che notizia sia “qualcosa che qualcuno vorrebbe non si sapesse. Tutto il resto è pubblicità”. In questo caso, le notizie che la Corte dei Conti ha dato sono passare inosservate e si è fatta pubblicità alle fake news. L’antipolitica ringrazia, la professione giornalistica soffre.

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