E’ la versione dell’Aise. Dopo le rivelazioni del New York Times sul caso di Giulio Regeni (nella foto), una fonte di vertice dell’intelligence esterna italiana, nata nel 2007 in seguito alla riforma dei servizi segreti attuata dell’allora presidente del Consiglio, Romano Prodi, ha svelato a Repubblica alcuni retroscena sui rapporti tra Italia, Stati Uniti ed Egitto. Con la Russia sullo sfondo. Secondo il NYT, Regeni sarebbe stato ucciso da ufficiali della sicurezza egiziana. Le prove sarebbero state trasmesse a Palazzo Chigi “su raccomandazione del Dipartimento di Stato e della Casa Bianca”. Ipotesi smentita sia dall’attuale capo del governo, Paolo Gentiloni, sia dal premier di allora, Matteo Renzi. Secondo i due, Barack Obama, presidente degli Stati Uniti al momento della morte del ricercatore friulano, non avrebbe mai fornito al governo italiano dossier o documenti segreti. Anche secondo la ricostruzione dell’Aise, da Washington non sarebbe arrivata alcuna rivelazione, né tanto meno “prove esplosive” sul presunto coinvolgimento dei servizi segreti egiziani nell’omicidio di Regeni. Anche perché, sempre secondo l’Aise, i primi ad avere sospetti sugli apparati del regime di Abdel Fattah al Sisi sarebbero stati i nostri 007.
UNA STORIA GROTTESCA
“Se non fossimo il Paese che siamo”, ha spiegato ieri la fonte anonima dell’Agenzia informazioni e sicurezza esterna a Repubblica, “ci sarebbe da trasecolare. Questa storia che avremmo ricevuto prove esplosive da Washington del coinvolgimento degli apparati egiziani nell’omicidio di Giulio Regeni e che le avremmo taciute o, peggio, ignorate, è semplicemente grottesca. Fummo noi i primi a indicare nelle nostre comunicazioni al governo che l’ipotesi più ragionevole e plausibile era quella di una responsabilità di organismi statali o parastatali del Cairo. E lo facemmo dopo 36 ore dal ritrovamento del corpo. Era un sospetto che poi divenne convinzione dopo l’autopsia effettuata a Roma il 6 febbraio del 2016. E da quel momento, la polizia giudiziaria, Ros, e Sco, e la procura di Roma, non hanno più smesso di battere e allargare quella pista. Con risultati investigativi su cui pochi, credo, avrebbero scommesso all’inizio. E’ vero”, ha proseguito l’agente dell’Aise, “gli americani, a un certo punto, ci fecero sapere di essere certi del coinvolgimento degli apparati della sicurezza egiziana. Ma non vollero indicare né se si trattasse di servizi militari, né se il riferimento fosse a quelli civili. Tanto meno indicarono nomi, circostanze di fatto o di luogo. E questo, dissero, per non compromettere la loro fonte. In ogni caso, quell’indicazione arrivò a fine marzo del 2016, e rafforzò soltanto una convinzione che non solo era già maturata, ma aveva già dato dei primi esiti investigativi”.
IL SEQUESTRO DEL CITTADINO USA
Repubblica, nel suo pezzo, cita altre tre diverse fonti: una dell’Intelligence, una diplomatica e una governativa. Secondo loro, una prima comunicazione degna di nota da parte dei servizi segreti americani risale al febbraio del 2016, quando riferiscono che il 24 gennaio, il giorno prima della scomparsa di Regeni, un cittadino statunitense è stato illegittimamente fermato durante rastrellamenti indiscriminati dalle parti di piazza Thair, il centro principale del Cairo. Un dato utile per capire il contesto della scomparsa di Regeni, tanto che la testimonianza del cittadino americano è stata successivamente acquisita dalla procura di Roma. Nella sua ricostruzione, Repubblica ricorda l’incontro del 2 febbraio del 2016 tra il ministro dell’Interno egiziano, Magdi Abdel Ghaffar, e l’ambasciatore italiano, Maurizio Massari, impegnato a reperire elementi utili per fare chiarezza sulla scomparsa di Regeni. “Dobbiamo approfondire le frequentazioni egiziane di Giulio: attraverso di esse, forse, è possibile capire le cause della sua scomparsa”, sono le parole di Ghaffar riportate dai report dell’Intelligence italiana. Una frase che, a posteriori, è stata interpretata dai servizi segreti italiani come un’ammissione dei vertici del regime, che sapevano chi fosse Regeni e potevano immaginare che fine avrebbe potuto fare.
AL SISI, TRUMP E PUTIN
Nell’aprile del 2016, grazie all’intervento di Obama, dal Cairo svelano il ruolo della National Security nelle operazioni di monitoraggio del ricercatore italiano e il tradimento da parte del venditore ambulante e informatore dei servizi segreti egiziani, Mohamed Abdallah. “Purtroppo”, ha rivelato una fonte diplomatica a Repubblica, “gli ultimi mesi del 2016 cambiano radicalmente lo scenario. A settembre del 2016, al Sisi, a New York per l’assemblea delle Nazioni unite, incontra l’allora candidato Donald Trump. Scommette sull’uomo che diventerà presidente e che espugnerà dall’agenda della Casa Bianca la questione del rispetto dei diritti umani”. L’Egitto, inoltre, ha aperto alla Russia di Vladimir Putin e all’invio di consiglieri militari al Cairo. Il prossimo settembre, la società che avrà l’incarico di recuperare i video della metropolitana di Dokki, quelli in cui il ricercatore friulano scompare, sarà russa. Dopo Roma, Washington e il Cairo, anche Mosca entra nelle indagini del caso Regeni.