AMATRICE (RIETI) – Pare che una volta all’anno la Madre Terra abbia preso l’abitudine di rammentarci quanto siamo piccoli e fragili. Ora c’è Ischia, i suoi due morti, le migliaia di sfollati, le polemiche (tardive, da buoni italiani quali siamo) per le case abusive e il patema per la fuga di turisti; un anno fa, esattamente un anno fa, c’è stato il dramma di Amatrice, Accumoli, Arquata e Pescara del Tronto: quasi trecento morti in un fazzoletto di terra impervia, splendida e antica a cavallo tra Lazio e Marche. Il suolo ha iniziato a tremare alle 3.36 del 24 agosto 2016 alla vigilia dell’annuale sagra dedicata al piatto che ha reso celebre nel mondo questo angolo d’Italia: la pasta all’amatriciana. Due giorni dopo i morti erano 291, più di 200 solo ad Amatrice, e quei luoghi, quei paesini minuscoli e arroccati si erano trasformati in una Beirut di montagna.
Il terremoto è così: ci stana all’improvviso, scoperchia i nostri nidi, distrugge le nostre cose, i nostri simboli, i luoghi che crediamo nostri solo perché li costruiamo, li vendiamo e li compriamo. E’ la terra che ci uccide senza odiarci perché non sa nemmeno che esistiamo. Si scuote, si assesta, si muove. Il terremoto ci ricorda che siamo minuscoli parassiti sulla groppa di un gigantesco animale selvatico che nemmeno si accorge di noi, dei nostri affari, dei nostri affetti.
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Ora Ischia, dunque; un anno fa Amatrice. E si aprono le danze, di nuovo: soccorsi, aiuti, promesse. Ma se nell’isola campana la tragedia è ancora fresca e l’agenda delle cose da fare è scandita dall’emergenza – e noi italiani siamo bravissimi a gestire le emergenze con una Protezione civile pluridecorata -, in centro Italia la musica sta già seguendo un altro spartito: sono passati dodici mesi ed è legittimo tirare una prima riga e abbozzare due conti.
Conti che abbiamo deciso di fare senza pallottoliere ma con la macchina fotografica direttamente nel cuore delle zone terremotate. Arriviamo ad Amatrice la mattina del 23 agosto e già inizia il via vai di furgoni delle principali emittenti nazionali, di giornalisti, di operatori, di fotografi: c’è da documentare la veglia per il primo anniversario del terremoto che si celebra tra poche ore. Iniziativa lodevole, doverosa e che – nelle speranze di chi ha perso qualcuno nei crolli – dovrebbe rimanere privata. Comprensibile. Tant’è che fin da subito ci concentriamo nel tentare di scoprire a che punto è la ricostruzione più che di andare a caccia di occhi lucidi. Dai vigili del fuoco ci facciamo accompagnare nella zona rossa, quella ancora interdetta, quella in cui le ruspe scavano, abbattono, smuovono, quella in cui ancora si cerca di recuperare qualcosa tra le macerie ocra che si confondono con le strade coperte di polvere dello stesso colore.
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Si lavora, in effetti: la chiesa di Sant’Agostino, danneggiata il 24 agosto 2016 e poi devastata dalla scossa dell’ottobre successivo, è avvolta dai tubi delle impalcature e quel che resta dei suoi muri antichi è in sicurezza e in via di recupero. Il resto del centro storico, però, è esattamente come lo avevamo lasciato l’anno scorso: un immenso cumulo di macerie. E non c’è bisogno di entrare nella zona rossa per rendersi conto che tutto è come un anno fa: la scuola elementare (rasa al suolo), la casa di riposo per anziani, la caserma dei carabinieri (già inagibile dal terremoto del 2009, mai recuperata e poi crollata), le ville all’imbocco del paese arrivando da Campotosto, i palazzi della prima periferia; edifici sventrati o ammassi di laterizi e cemento dai quali spuntano qua e là inquietanti segni di vita domestica: un passeggino, un materasso, un computer, una pentola. Gli abitanti di Amatrice vivono e si muovono in un cimitero di macerie senza che nemmeno gli si usi la cortesia di toglierle di mezzo giusto perché possano voltare pagina con un po’ più di ottimismo senza quei ruderi a ricordare ogni mattina i nomi delle vittime.
I più fortunati tra gli sfollati hanno ottenuto le casette in legno: graziose ma ancora troppo poche rispetto alle esigenze. E il malcontento c’è. Una scritta con lo spray rosso sul muro di una casa diroccata lo spiega meglio di qualsiasi ragionamento: «Grazie del niente».
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Un malcontento che cresce anche perché a fare da contraltare alle carenze dello Stato c’è l’iniziativa privata che, almeno ad Amatrice, ha dato speranza a chi aveva un’attività e di colpo si era trovato a non avere più un luogo in cui svolgerla. Parliamo del progetto “Un aiuto subito” promosso dal Corriere della Sera e dal Tg La7 grazie al quale, con gli sms e con la generosità di tantissimi italiani, sono stati raccolti fondi in grado di coprire le spese di realizzazione di tre grandi e moderni complessi edilizi: due poli commerciali nei quali hanno trovato posto negozi e bar e un’area food progettata dall’architetto Stefano Boeri con otto ristoranti, una mensa e uno spazio aperto concepito per creare, o meglio, ricreare la vita sociale.
In un modo o nell’altro, dunque, Stato o non Stato, Amatrice sta risorgendo. E a farcelo notare è anche un piccolo e affollatissimo bar sorto sulle rovine di una bottega proprio all’imbocco del paese: si chiama Bar Risorgimento. E il riferimento non è ottocentesco.