L’esordio del nuovo presidente americano davanti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite (la data da segnare è martedì 19 settembre) ha seguito il copione che da Donald Trump ci si aspettava. Un discorso animato, dai toni coloriti – quelli con cui Trump si trova più a suo agio, quelli della perenne campagna elettorale che è la sua presidenza. Ha attaccato pesantemente i nemici degli Stati Uniti, con in cima alla lista Corea del Nord e Iran (che sono nemici dell’America prima che del mondo). Ha parlato di nazione nel consesso più multilaterale che c’è al mondo (ed è certamente questo, forse più dei toni diversi dal solito ritmo compassato e conciliante degli interventi classici alla massima assise Onu, il punto rivoluzionario della sua presidenza).
CONTRO IL NORD (E L’IRAN)
Retorica massima contro la Corea del Nord: “Gli Stati Uniti hanno una grande forza e pazienza, ma se saranno costretti a difendere se stessi o i loro alleati (Giappone e Corea del Sud, ndr), non avremo altra scelta che distruggere completamente la Corea del Nord”. “Destroy” è forse la parola più ripresa del discorso di Trump, poi viene probabilmente “Rocket Man”, ossia come il presidente americano chiama il dittatore Kim Jong-un (dice l’Economist che però il copyright è il loro), che, dice DT, “è in una missione suicida per se stesso e per il suo regime”. Accendere i toni contro il Nord – o contro l’Iran, che ha chiamato “nazione canaglia” – non è niente di nuovo: le minacce di attacco sono diventate da mesi una costante nella retorica con cui la Casa Bianca s’approccia al dossier nordcoreano, pur non portandosi dietro grossi risultati (Kim ha infatti continuato i test missilistici e ne ha compiuto anche un altro, il più importante della sua storia, atomico). Così vale per gli attacchi al deal sul nucleare iraniano: Trump dice che Teheran è uno stato che finanzia il terrorismo (non sbaglia) e che gli Stati Uniti potrebbero anche decidere di tirarsi fuori dall’accordo (lo ha definito imbarazzante), che il presidente detesta sia perché è stato chiuso come una scommessa vinta, un’eredità, dal suo predecessore (e qui segue la linea politica di obliterare tutto ciò che c’è di più obamiano, vedere per esempio la riforma sanitaria); ma anche perché quell’intesa non è stata raggiunta da America e Iran faccia a faccia, ma è frutto di una mediazione multilaterale tra potenze globali.
L’AMERICA FIRST ONUSIANO
È stato un discorso per certi versi raffinato quello scritto per Trump da Stephen Miller, l’ultimo baluardo del nazionalismo più intransigente rimasto all’interno degli alti funzionari della Casa Bianca. Rimproverare le nazioni di quell’indiscutibile asse del male e coloro che fanno affari con loro (sottinteso, Russia e Cina) di portare il mondo verso “l’Inferno” in cui quei paesi sono già, è stato leva per sottolineare il nazionalismo dell’America First. Trump ha ribadito più volte che metterà sempre gli interessi americani al primo posto – l’esempio è uscito dalla reazione alla crisi nordcoreana, o dal deal con l’Iran – e ha invitato là, dal podio della massima assemblea del globalismo, gli altri stati a fare altrettanto. Non siamo un impero, sostiene Trump, non abbiamo “mai voluto imporre il nostro stile di vita”, ma certo, dice, ci siamo eretti a modello.
TENERE IL PUNTO CON GLI ELETTORI
Il messaggio è rivolto tanto alla Comunità internazionale che agli Stati Uniti, agli elettori, che negli ultimi tempi si sono sentiti traditi dalle mosse del presidente, soggette a una normalizzazione globalista per riportare la promessa di una presidenza rivoluzionaria sul solco realista di una classica linea repubblicana. La stragrande maggioranza del suo elettorato più irriducibile pensa dell’Onu esattamente quello che il presidente ha detto in campana elettorale: è un “club” dove chiacchierare e incontrarsi, ma le cose importanti succedono altrove. L’approccio in un’immagine: mentre tutti i leader mondiali stanno a New York, lui, newyorkese, fa base a Bedminster, nel suo golf-resort in New Jersey dove cerca di attirare gli altri leader uno per uno, per incontri bilaterali. Un’altra immagine: lunedì ha scherzato dicendo che “ha visto un grande potenziale” dall’altra parte della strada, ossia alla Trump World Tower (la battuta non è nuova), colpo d’affari del palazzinaro che volle costruirla davanti al Palazzo di Vetro perché aveva fiutato le potenzialità immobiliari della location. Un esempio cementato di come s’approccia Trump alle questioni globali, con interesse. A proposito di battute: parlando del Venezuela (la sera precedente Trump aveva ospitato i leader di alcuni paesi dell’America Latina per una cena di lavoro), ha detto che è al collasso non perché ha applicato male i principi del socialismo, ma perché li ha applicati “in modo diligente” – segue risposta da Caracas del presidente Nicolas Maduro: Trump “è il nuovo Hitler”.
(Foto: Twitter, White House)