Esistono le “mode” anche in economia e di questo periodo non si fa altro che parlare di Peter Barnes e del suo nuovo libro – Capitalismo 3.0, il pianeta patrimonio di tutti – in cui riprendendo le teorie economiche sui “beni pubblici”, ipotizza un “capitalismo verde” gestito da tutti e nell’ottica del bene comune. Alla moda risponde anche Mario Monti, che si allinea nella prefazione del libro all’idea del suo autore. Tuttavia, le teorie di Barnes non sono poi così nuove. Dalle pagine del Corriere economia Sapelli ci ricorda, infatti, che le “nuove teorie” sul capitalismo verde che stanno affascinando un po’ tutti, in realtà l’Italia le sta mettendo in pratica da anni con l’operato rigoroso del FAI, il fondo per l’ambiente. Voluto dal giurista Alberto Predieri, il FAI si occupa di conservare beni pubblici ambientali, operando in una logica pienamente capitalistica. Sostenere, come fa Barnes, che al mercato e alle imprese non compete la gestione del “verde” è un non-sense in un sistema capitalistico. Le imprese, infatti, devono e possono concorrere con lo Stato per la conservazione dei cosiddetti commons o beni comuni, in una logica liberista e liberale, attraverso il progresso tecnologico e al contempo capitalistico. Sono le industrie che fanno ricerca per poi poterne ricavare profitti e sono dunque le stesse industrie che devono assumersi una parte di responsabilità verso l’ambiente. Barnes, in sostanza, ci ripropone un modello che in Italia sta funzionando da tempo. E non è un caso che proprio qualche giorno fa Fortune ha indicato la nostra ENI come terza società più ‘responsabile’ al mondo.
Il capitalismo verde comincia con il ‘Fai’
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